Quello che sta capitando ad Hong Kong ci riguarda tutti. Non solo perché c’è in gioco la libertà nell’ex colonia britannica passata sotto il controllo della Cina ormai ventidue anni fa ma ancora piuttosto autonoma. Non solo perché quando da quelle parti scendono ripetutamente in piazza due milioni di persone, soprattutto giovani, il pensiero non può non andare a quel che accadde a Pechino, a piazza Tienanmen, il 3 giugno 1989.
Ma anche perché è la prima dimostrazione di come sta cambiando la manifestazione del dissenso nell’era digitale. Solo dieci anni fa, in occasione dei moti di Teheran, in Iran, era Twitter lo strumento per organizzarsi e raccontare al mondo quello che stava capitando.
Era emozionante seguire le proteste da qui e illudersi di incoraggiarle con qualche facile retweet. E qualche mese dopo la primavera araba che scosse diversi paesi mediterranei, dalla Tunisia all’Egitto, ai tweet aggiunse la potenza dei gruppi di Facebook.
Erano gli anni in cui si credeva che con i social network si potessero abbattere le tirannie. Non si era ancora capito che quelli sono piuttosto lo strumento dei regimi autoritari per sorvegliarci e punirci. Lo si è visto chiaramente in occasione della guerra di Siria, quando gli oppositori sono stati sgominati grazie al fatto che la polizia aveva messo le mani sui loro computer. Lì dentro c’era tutto: la loro condanna a morte.
Ad Hong Kong in questi giorni stiamo assistendo ad un cambio di strategia. Gli oppositori fanno di tutto per usare la tecnologia, ma senza lasciare tracce digitali: comprano biglietti della metro invece degli abbonamenti nominali; usano sim card prepagate e anonime invece di quelle personali; vanno su Internet creando reti virtuali anonime, preferiscono Telegram a Whatsapp e ricorrono a parole in codice come “pic nic” per indicare gli appuntamenti pubblici; infine durante le manifestazioni non si fanno selfie né scattano foto in cui si possano distinguere dei volti e molti usano mascherine antismog per evitare di essere individuati tramite i potenti software di riconoscimento facciale collegati alle videocamere che stanno ovunque.
Va tenuto conto infatti che la Cina è una superpotenza tecnologica in grado di mettere in campo strumenti sofisticatissimi per individuare i leader della protesta. L’ultimo è un software di “gait recognition”, già in uso a Pechino e Shanghai, in grado di riconoscerti anche solo in base a come cammini. Si tratta di una tecnologia sulla quale lavorano da anni i servizi segreti di Stati Uniti, Regno Unito, Giappone e Israele, ma è stata una startup cinese, Watrix, la prima a sviluppare una soluzione in grado di riconoscere chiunque, anche di spalle, a 50 metri di distanza.
Insomma, è difficile essere ottimista per chi protesta, ma è impossibile non sperare che il loro sogno finisca bene.