Me la ricordo bene la prima volta che la parola startup è finita in prima pagina su un quotidiano italiano. Me la ricordo perché era un mio articolo ed era su Repubblica. Era il 14 febbraio 2012 e il titolo era “L’Italia del futuro, il business dei giovani.it”. Nel sommario si diceva, con una enfasi che oggi non possiamo non considerare eccessiva, che “le nuove imprese del web oggi sono il vero motore dell’occupazione… fatturano milioni e il mondo ce le invidia”. Diciamo che era un auspicio. Eppure erano formidabili quegli anni: io ne avevo passati quattro a fondare e dirigere la versione italiana di un magazine leggendario quando si parla di innovazione: Wired. E avevo incontrato questi ragazzi in eventi semiclandestini, con al massimo qualche decina di partecipanti, ma un entusiasmo contagioso. C’era tutto un frasario nuovo per noi: gli eventi si chiamavano “barcamp”, o “unconference”, le presentazioni “elevator pitch” e il loro sogno era chiamato “startup”. Ricordo che all’inizio ci fu una specie di dibattito in rete su come andasse scritta questa parola: attaccata o staccata? Col trattino o senza? (Proprio come accadeva, su un piano molto più visibile, in politica, per la questione del centrosinistra). Gli startupper erano - e sono - entusiasmanti. Per dare una idea del contesto, in quegli anni dalle librerie il libro di Michele Serra “Gli Sdraiati” scalava le classifiche raccontando una generazione molle e spenta, quella che avrebbe giustificato l’impennata di NEET nelle statistiche dell’Istat (NEET: i giovani che non studiano, non lavorano, non si esercitano: ma stanno, appunto, sdraiati). Gli startupper erano l’altra faccia della luna. Erano quelli che avevano capito le potenzialità della rete per creare facilmente e con pochi soldi una impresa, sperando di farne la Google o la Facebook del futuro. Le startup sono questa cosa qui: non semplicemente una nuova piccola impresa, ma una nuova piccola impresa, con un alto tasso di innovazione e tecnologia, che spera di diventare grande in fretta (scalare: scale-up), ma che se non ci riuscirà, probabilmente fallirà. E qui c’era e c’è un altro dei capisaldi della Silicon Valley: il fallimento non è una tragedia ma soltanto un’altra tappa verso il successo. Lo ripetevamo ad ogni evento, con convinzione sempre maggiore: il vero fallito è quello che non ci prova, e Jovanotti in quell’anno cantava “Ora”, e ripeteva “non c’è scommessa più persa di quella che non giocherò”.
Mi tornano in mente tutte queste cose adesso perché negli Stati Uniti si è aperto un dibattito che potremmo sintetizzare con la frase: “La fine dell’era delle startup”. L’ha aperto Techcrunch, un giornale che è un po’ la Bibbia della Silicon Valley: è come se l’Osservatore Romano avesse titolato “La fine della Chiesa”. Ora le startup non sono certo finite, e quelli che hanno parlato della fine di qualcosa sono quasi sempre stati smentiti. Si pensi a “La fine della storia” di Fukuyama, che è del 1992; ma anche, per restare all’innovazione, alla copertina di Wired del 2010, “La fine del web”. Ora né la storia né il web sono finiti. E nemmeno le startup. Ma è vero quello che dice Techcrunch e cioé che Facebook e Google, Apple e Amazon sono diventati così grandi e potenti che oggi una startup non spera più di prendere il loro posto, ma al massimo di essere acquisita. Siamo insomma in una sorta di monopolio digitale, non diverso da quello che un secolo fa portò a provvedimenti clamorosi di antitrust nel petrolio e nell’acciaio. Vedremo che accadrà. In Italia intanto le startup non finiscono per la semplice ragione che non sono ancora davvero iniziate: i ragazzi ci hanno provato, spesso le loro idee erano ottime, ma sono stati lasciati soli. Le aziende, i politici e gli investitori li hanno portati a spasso in centinaia di eventi, finte gare con stretta di mano in premio e foto per i comunicati stampa; spesso gli è stata offerta una scrivania con wifi incluso in cambio di una parte della società e poco altro. Per capitali investiti siamo non solo dietro Francia, Regno Unito, Germania e Spagna, ma anche Grecia e Portogallo. Speriamo che finisca davvero qualcosa: l’era delle chiacchiere. E si apra quella dei fatti.
post scritto per il magazine di Repubblica DLui in edicola il 18 novembre 2017