Nel giorno in cui viene annunciata una delle quotazioni in Borsa più grandi della storia, sono andato a cercare di ricostruire la storia dell’irresistibile ascesa di un giovane che è bene conoscere. Si chiama Evan Spiegel, ha 26 anni, è stato uno dei tre fondatori di Snapchat, ora soltanto Snap, azienda che guida dal primo giorno. Grazie a questa impresa ha accumulato un patrimonio di oltre due miliardi di dollari, il che ne fa il più ricco ventenne del pianeta (ma non il più giovane miliardario, podio che gli è stato recentemente scippato dai fondatori di Stripe, i fratelli Patrick e John Collison).
Ecco come funziona Snapchat
Snapchat probabilmente la conoscete tutti: è la app preferita dai giovani perché consente di mandare foto e messaggi che spariscono. Ma chi è Evan Spiegel? Diversamente dagli altri “eroi” della rivoluzione digitale, lui non sta in Silicon Valley e non si è fatto da solo. Nel senso che non è partito dal basso. Anzi. E’ un figlio di papà: piuttosto bello, arrogante il giusto, innamorato del lusso (le Ferrari e gli elicotteri sono alcune delle passioni che ostenta), fidanzato con una top model (Miranda Kerr), accreditato di un flirt di capodanno con Taylor Swift, è nato a Los Angeles, il 4 giugno del 1990, in una famiglia ricca. Molto ricca. Il padre è un legale di grande successo che qualche anno fa ha comprato una specie di reggia da oltre 4 milioni di dollari, vicino a Santa Monica, a Pacific Palisades: Evan è cresciuto qui, fra molti agi (a 16 anni ha avuto in regalo una Cadillac con cui andava a scuola, l’esclusiva Crossroads di Santa Monica; a 17 anni, mentre genitori si stavano separando, ha fatto una questione per ottenere circa 2000 dollari al mese per le sue spese più altri 2000 per le emergenze, e una BMW; ma il padre si è opposto pare).
Leggi anche: tour nella casa da sogno di un giovane miliardario
Prima di Snapchat, che ha fondato ad appena 21 anni, ha frequentato una scuola di design a Pasadena; ha fatto uno stage alla Red Bull perché era la sua bibita preferita ma ha imparato solo a organizzare grandi feste ha detto dopo; è stato assunto brevemente in una società di biomedicina, chissà perché; di passaggio ha insegnato in Sud Africa l’arte di trovarsi un lavoro, perché a un certo punto voleva diventare insegnante; si è poi iscritto all’università di Stanford, è stato ammesso, cosa non facile, e qui ha iniziato a collaborare con una startup che voleva far sì che le persone in India potessero ricevere via sms i testi delle email. Insomma, vagava senza una meta precisa e se lo poteva permettere, diciamo.
Subito prima di Snapchat, c’è stato un fallimento e qui è cambiato tutto. La storia è questa: Evan a Stanford entra in una fraternity, una associazione studentesca, Kappa Sigma, dove compie diverse prevedibili scorribande (anni dopo usciranno fuori delle email dove si riferisce alle donne con un maschilismo imbarazzante, e dovrà chiedere pubblicamente scusa). In questo contesto diventa amico di Bobby Murphy, ancora oggi al suo fianco. Assieme realizzano un sito, anzi una app, che deve aiutare i genitori degli studenti a gestire le iscrizioni scolastiche: non lo usa nessuno però. Ma è la svolta: ad un secondo amico, Reggie Brown, viene l’idea di aggiungere una funzione che consente di mandare fotografie che spariscono. Geniale, possiamo dire oggi. Allora sembrava una scemenza, ma non lo era affatto. Nel luglio del 2011 la prima versione di Snapchat è online (anche se si chiamava Picaboo). Fantasmino giallo come logo, col tempo sparirà anche quello; in compenso online ancora si trova la foto della sera del debutto, con i tre fondatori sorridenti davanti ad una torta.
Da allora è stata una scalata inarrestabile durante la quale Evan si è permesso di rifiutare una offerta di 3 miliardi di dollari da Mark Zuckerberg per confluire in Facebook (sembrava una follia, il gambetto di una vita, fu detto; ma 3 miliardi è quello che ora prova a incassare in Borsa con una quotazione mai vista prima, perchè in pratica chi compra le azioni di Snap non avrà nessun diritto sulla gestione e non potrà decidere nulla).
Questa, in breve, la ancora breve storia di Evan Spiegel. “Sono un giovane bianco, ricco e istruito” ha detto una volta parlando a Stanford, “sono stato fortunato, lo ammetto”. Ma è stata solo fortuna la sua? Non direi. Due anni fa in un video di 4 minuti scarsi Spiegel ha spiegato, con un blocco di carta e un pennarello molto poco digitali, cosa fosse questa app che piace tanto agli adolescenti dimostrando di aver capito il meccanismo profondo per cui funziona così bene, che non è certo il caso e nemmeno la privacy: “Un tempo, ha detto, le fotografie servivano a conservare momenti importanti, ora ne scattiamo così tante che ci servono per conversare”. Fotografie per parlare. Per questo nella quotazione in Borsa Snap viene definita una “camera company”.
Ma c’è un’altra sua frase che lo caratterizza ancora di più: “Life it is not fair. It is not about working harder, it is about working the system”. Che si può tradurre più o meno così: nella vita non è importante lavorare duro, ma trovare in modo di ottenere un obiettivo senza curarsi troppo del modo”. Il che spiega perché Reggie Brown, l’amico che gli diede l’idea di Snapchat, fantasmino compreso, è stato ben presto escluso dalla società e liquidato dopo una causa con qualche milione di dollari. Una somma ridicola per uno come lui che nel maggio scorso ha comprato la magione californiana che era di Harrison Ford per 12 milioni di dollari.