Che fine faranno i giornali? E soprattutto, visto che ai cittadini questo deve stare davvero a cuore, che fine faranno il giornalismo e l’informazione. Stamattina a palazzo Chigi il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, aprendo solennemente gli Stati generali dell’editoria, ha detto che in cinque mesi di lavoro si dovranno provare a fornire le risposte per riformare un settore entrato in crisi da quando esiste il web almeno. In trent’anni infatti non solo è cambiato radicalmente il modo in cui ci informiamo, ma anche la relazione dei giornalisti con chi vuole informarsi che oggi ha: 1) infinite possibilità di scelta; 2) può contestare facilmente e pubblicamente quello che affermiamo; 3) e infine può diventare a sua volta una fonte di informazioni.
Che fine farà il giornalismo in questa rivoluzione non lo sa bene nessuno ma una indicazione importante verrà da quello che fra qualche ora andrà in scena allo Steve Jobs Theatre di Cupertino, il quartiere generale della Apple. Secondo le anticipazioni di diversi giornali, l’amministratore delegato Tim Cook, per reagire alla crisi di profitti che arrivano da iPhone, iPad e iMac, sposterà il focus della Apple tutto sul mondo dei servizi lanciando, accanto alla piattaforma per la musica, che già c’è, una per i film e le serie tv, una per i videogiochi e infine una per le news, per le notizie. Di questi progetti si parla da diversi mesi, per quel che riguarda le news almeno da quando Apple ha acquisito la startup Texture, che in pratica si proponeva di creare una Netflix dei giornali: paghi un abbonamento mensile e leggi quello che vuoi, tutto compreso. Ora questo modello Apple lo rilancia in grande stile, non ha ancora convinto il New York Times e il Washington Post a salire a bordo, ma già c’è il Wall Street Journal assieme a moltissimi magazine.
Funzionerà il modello “all you can eat” applicato al giornalismo? Non lo so, ma so che si tratta della conferma definitiva della profezia del massimo guru dell’Era Digitale, quel Nicholas Negroponte che quando la rete era davvero agli inizi, dall’alto del MediaLab del MIT di Boston, già diceva cosa saremmo diventati. Fu Negroponte, infatti, già nel 1995, a parlare per primo del Daily Me, cioè del quotidiano del futuro fatto su misura da un algoritmo per ciascuno di noi. Per farci leggere solo quello che vogliamo, solo quello che ci piace. Un po’ su Internet è già così con gli aggregatori automatici che filtrano i contenuti in base al nostro comportamento in rete (creando una “filter bubble”, una bolla, in cui il mondo ci appare esattamente per come ce lo immaginiamo).
Lo stesso meccanismo lo abbiamo già visto in azione in diversi settori, come la musica, dove su Spotify le compilation di una volta hanno lasciato spazio alle playlist fatte da ciascuno di noi. Ma in fondo gli album musicali già prevedevano i singoli. Era già possibile comprare una canzone invece di un long-playing senza recare danno al lavoro dell’artista. Sicuri che lo stesso si possa fare per il resto? Invece di un film intero, puoi prendere una scena e basta? Invece di una romanza, soltanto il do di petto del tenore? Invece della Divina Commedia solo il Canto di Ulisse? Pare di sì.
Ora forse è il turno dei giornali entrare a far parte di un jukebox digitale dove i lettori prenderanno da ogni testata solo quello che vogliono, gli argomenti preferiti, oppure addirittura i giornalisti preferiti, per farsi il giornale dei sogni. Mi dia un Cazzullo, più Travaglio, Mattia Feltri e Natalia Aspesi, per favore. Una cosa così. Come accade alla Playstation con Fifa, modalità Ultimate, dove è possibile farsi una squadra scegliendo i campioni di tutti i tempi. Ma l’informazione può essere trattata come un videogame?
Ad alcuni potrà sembrare un sogno, forse aumenterà la lettura degli articoli, che poi è quello che conta davvero, e magari porterà ricavi vitali a una industria in crisi, ma non è un passaggio senza rischi. Seri. Per esempio il rischio di ascoltare soltanto le notizie che confermano i nostri pregiudizi, cosa che peraltro già avviene sui social, indebolisce i dubbi e aumenta le divisioni feroci. Lo abbiamo visto con quali risultati. Se non troviamo in fretta degli antidoti, giorno dopo giorno manderà a rotoli quello che abbiamo conquistato in secoli di storia: la democrazia e la libertà (qui lo spiega il Financial Times undici anni fa).
E poi in una piattaforma che tratta gli articoli come se fossero le voci di un ristorante cinese o di un sushi bar, si perde il concetto stesso di giornale che, come diceva un grande direttore, non è solo una collezione di articoli belli, “quella è una antologia”; ma è piuttosto un modo di vedere le cose, di leggere la realtà. Secondo una certa idea del mondo.
Probabilmente si tratta di un passaggio inevitabile, e, se gestito con attenzione, con moderazione e rispetto dei contenuti, positivo. Dovremmo cercare di andare nel futuro senza paura ma anche senza perdere le cose buone che i nostri padri hanno costruito.