Parliamone invece di Blue Whale. Perché parlare di Blue Whale vuol dire ricominciare a parlare di come stanno davvero i nostri figli. Del disagio che a volte sentono. Della solitudine che a volte vivono. Della disperazione che soffoca alcuni di loro portandoli ad andare su Twitter, Instagram o Tumblr e scrivere frasi come “Curatore, cercami. Sono pronto”. Pronto a giocare fino a morire per non vivere più così. Solo che Blue Whale non è un gioco né un romanzo di fantascienza. Non è come guardare Hunger Games al cinema. E’ un percorso reale attraverso il quale in 50 giorni si superano prove senza senso, infliggendosi dolore, fino alla morte.
E’ vero, è finto, è stato creato dai media? Mi importa fino ad un certo punto. Sono veri i messaggi che decine di ragazzi scrivono ogni giorno sui social sperando di essere adescati. Li ho letti. Ne ho letti alcuni. E ho incontrato le vittime di Blue Whale, ho scoperto che sono soprattutto ragazze, che dicono di essere tristi, sole, disperate, magari solo perché non si sentono accettate dagli altri; alcune raccontano di aver subito violenze da amici o parenti, e cercano un “curatore” che le porti via da quell’orrore quotidiano. Ci sarà davvero il curatore sadico in agguato? Non lo so.
Ma so che dietro ogni ragazzo che gioca a Blu Whale, c’è una richiesta di aiuto che non abbiamo saputo ascoltare. Dietro ogni ragazzo che sui social dice di essere pronto a farsi del male fino a morire, c’è un genitore che si è distratto. Non sto accusando i genitori, lo sono anche io, e lo so che è il mestiere più difficile del mondo. Ma dobbiamo ricominciare a parlare con i nostri figli. Anche quando alzano un muro come spesso fanno gli adolescenti. Metterci in ascolto, con pazienza, disponibilità, amore. E parlare. Perché questo, solo questo, sconfiggerà la Balenottera Azzurra.