Nel dicembre del 2013 nel Sannio Matese si verificò una sequenza sismica di una certa rilevanza con magnitudo massima attorno a 5 Richter. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Perugia e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia notarono che la maggior parte dei terremoti dello sciame avevano un profondità focale tra i 15 e i 25 km.
Normalmente, se si escludono le ben identificate e ristrette zone di subduzione, i terremoti hanno quasi sempre profondità focali attorno ai 10 km. Difficilmente si sbaglia di molto infatti se, sapendo che si è verificato un terremoto da qualche parte, si pensa che abbia una profondità di una decina di km.
È per questa ragione che i ricercatori si sono incuriositi e hanno controllato se ci fossero altre caratteristiche fuori dalla norma di quei sismi crostali, peraltro non particolarmente energetici. Hanno controllato allora le forme d’onda degli eventi più importanti della sequenza. In pratica si sono preoccupati di guardare con molta cura i sismogrammi prodotti da quei terremoti. Hanno visto così che erano molto simili ai terremoti che si verificano nelle aree vulcaniche.
L’Italia è sismica quasi dappertutto ma è anche fortemente vulcanica. Da tanti anni l’INGV si dedica non solo al monitoraggio sismico, ma è anche fortemente impegnato nel controllo dei numerosi vulcani attivi che insistono sul territorio nazionale.
È stato dunque agevole per il gruppo di questi intraprendenti ricercatori capire che si trovavano di fronte a una situazione in un certo senso anomala, perché è del tutto evidente che il Sannio Matese non è vulcanico pur essendo una zona fortemente sismica.
I segnali della terra
Possiamo quindi considerare accettabile che la sequenza sismica che ha inizialmente attratto l’attenzione dei nostri geofisici possa essere ascritta a una vera e propria intrusione magmatica. Inoltre sono disponibili dati che mostrano in modo incontrovertibile che i gas rilasciati dall’intrusione sono costituiti per lo più da anidride carbonica, arrivata in superficie come gas libero o disciolta negli acquiferi dell’area appenninica considerata.
Il risultato ha notevole rilevanza perché apre nuove strade alla identificazione delle zone di risalita del magma nelle catene montuose e mette in evidenza come tali intrusioni possano generare terremoti con magnitudo significativa. In prospettiva consentirà progressi nella comprensione della formazione delle catene montuose e della loro evoluzione.
Potranno anche essere effettuati studi sulla composizione degli acquiferi che consentiranno di evidenziare e quantificare anche le anomalie termiche.
Sia subito chiaro che si esclude che il magma che ha attraversato la crosta nella zona del Matese possa a breve, cioè nei secoli a venire, arrivare in superficie formando un vulcano. Tuttavia, se l’attuale processo di accumulo di magma nella crosta dovesse continuare, ovviamente nessuno può escludere che alla scala dei tempi geologici, ossia migliaia di anni, si possa formare una struttura vulcanica.
La ricerca è iniziata con l’analisi della sismicità della sequenza del Sannio-Matese, si è poi conclusa con la modellazione chimico-fisica delle condizioni di intrusione magmatica. Un chiaro esempio di sinergia fra sismologia, vulcanologia e geochimica.
La conoscenza dei segnali riconducibili alla risalita di magmi e i metodi per identificarli in zone non vulcaniche verranno estesi ad altre grandi catene come l’Alpino-Himalayana, Zagros (tra Iraq e Iran), le Ande e la Cordigliera Nord-Americana.
Sulle tracce del gas
Sicuramente ne verranno risultati importanti anche per la comprensione complessiva della geodinamica del nostro Pianeta. Non resta quindi che complimentarsi con gli autori di questo importante risultato auspicando che possano continuare nella stessa direzione con successi crescenti.
Non nascondo che questo risultato mi ha fatto piacere anche a livello personale. Già all’inizio del 2000 insieme ad alcuni degli stessi autori di questo studio avevamo notato che il versante tirrenico dell'Appennino emette notevoli quantità di gas, per lo più CO2, in gran parte originate da processi di degassamento del mantello terrestre che in quell’area inizia a una profondità di 20-25 km.
Ci chiedevamo però quali potevano essere le modalità di trasferimento dei gas dal mantello alla superficie. Dopo una dozzina di anni abbiamo finalmente la risposta grazie all’impegno e alla fantasia degli autori di questa importante ricerca. Riassumendo, la serie sismica inizia a 20-25 km di profondità dove si trova il contatto fra mantello e crosta e i principali eventi sono caratterizzati da basse frequenze (minori di 2Hz) che si collegano al movimento di magma o fluidi e non al moto di faglia che ha caratteristiche molto diverse.
La sequenza del Matese ha evidenziato la contemporanea presenza di una dinamica magmatica profonda e un possibile cammino di risalita dei fluidi ricchi in CO2 dal mantello alla superficie terrestre. È molto probabile che situazioni simili interessino altre zone del settore tirrenico degli Appennini caratterizzate dall'emissione di fluidi ricchi in CO2. Assisteremo quindi a notevoli progressi in questo campo sia in Italia che all’estero.