In politica non c’è nulla di più duraturo del provvisorio. E allora un trentanovenne bergamasco, che lavora a testa bassa, potrebbe diventare il nuovo leader del Pd.
Maurizio Martina era vicesegretario del partito quando Matteo Renzi, dopo la pesante sconfitta del 4 marzo, si è dimesso. Con lui aveva guidato il partito dopo le primarie del 2017, sostenendolo anche difronte alle critiche degli scissionisti. Un momento forte nella sua vita politica, che lo ha portato a dividersi dal suo ex ‘capo’ Pierluigi Bersani.
Ora Martina ha preso in mano il Pd e, sulla carta, lo dovrebbe portare all’assemblea che a metà aprile deciderà se eleggere il nuovo segretario o avviare la fase congressuale. Ma i tempi si potrebbero allungare: se lo stallo post-elettorale perdurasse il partito potrebbe chiedergli di proseguire nel suo compito di reggente per qualche settimana ancora, o forse anche di più.
Lui intanto ha preso sul serio il suo impegno, tanto da dimettersi da ministro dell’Agricoltura. Un ruolo che a lui, che viene dalla bassa bergamasca, piaceva e che gli ha fatto guadagnare la stima di molti operatori del settore. Alle spalle ha un percorso classico da vecchio partito strutturato: dal consiglio comunale del suo comune alla segreteria nazionale.
Nel frattempo si è laureato in Scienze politiche e ha messo su famiglia. Chiamato al governo da Enrico Letta, promosso ministro da Matteo Renzi e confermato da Paolo Gentiloni, si è battuto per la riuscita di Expo in tandem con l’attuale sindaco di Milano Giuseppe Sala.
Il 5 marzo si ritrova in mano un partito sconfitto e lacerato, alla prima riunione della direzione tiene il primo discorso importante e riesce a compattare il Pd promettendo “collegialità”. Dice poco, ma evita di accendere gli animi. Questo basta a garantirgli una fragile pace. Il rischio di scomparire, come è successo ai partiti socialisti in Francia, Spagna e Grecia, è lo spettro contro cui combattere.
Forse è per questo che i primi passi della sua reggenza sono determinati: senza troppi clamori cerca di rianimare un partito frastornato e in molte parti d’Italia del tutto annichilito. “Abbiamo seimila circoli, promuoviamo seimila assemblea di territorio” incalza. Lui stesso va a Ostia per “una campagna di ascolto dei cittadini”. Poi chiama i segretari locali del partito, partecipa alle riunioni della minoranza di Gianni Cuperlo, ricucendo strappi dei mesi passati. Il Pd, spiega con pragmatismo, deve essere “umile” e “tornare a essere utile”. Ha già lanciato la sua prima proposta di legge: un assegno universale per le famiglie con figli.
Il compito è arduo, ripartire da una sconfitta. Sullo sfondo si muovono potenziali avversari per la guida del partito, da Carlo Calenda a Nicola Zingaretti, ma intanto nella sede di via del Nazareno c’è lui. Che ha preso sul serio il suo impegno.