Tutti ne parlano, tutti assicurano di non volerlo, pochissimi lo escludono con nettezza. E’ il governo del Presidente, formula politica che indica un governo il cui presidente del Consiglio sia stato scelto dal presidente della Repubblica in quanto figura di spicco, meglio se non politica, per superare un impasse.
Se non c’è una maggioranza, o essa non riesce a indicare al Capo dello Stato un nome per palazzo Chigi, il Presidente indica una personalità di sua fiducia, spesso un tecnico, che va in Parlamento a chiedere la fiducia con un programma scarno e preciso.
Il primo nella storia della Repubblica è stato quello di Giuseppe Pella, voluto da Luigi Einaudi nel 1953, recentemente i due più noti sono stati quelli di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, voluto da Oscar Luigi Scalfaro, e quello guidato da Mario Monti dalla fine del 2011 per scelta di Giorgio Napolitano. Secondo alcuni lo fu anche il governo Dini, che però viene indicato dai costituzionalisti più come un governo tecnico che come un governo del Presidente.
La Costituzione prevede che il presidente del Consiglio sia nominato dal Presidente della Repubblica. E lo fa, per prassi, dopo aver consultato i suoi predecessori, i presidenti delle camere e i gruppi parlamentari che rappresentano le forze politiche. Ogni governo, poi, deve avere la fiducia del Parlamento. Solitamente i partiti che, alleati, hanno la maggioranza esprimono il nome del premier e il presidente della Repubblica lo nomina, poi questi va alle camere e chiede la loro fiducia.
Durante la Prima Repubblica si sono avuti diversi cambi di premier durante una legislatura; nella Seconda Repubblica bipolare dalle urne usciva già l’indicazione, non vincolante, del leader della coalizione e quindi candidato premier.
Ora la nuova legge elettorale, il Rosatellum, non prevede un candidato premier e siamo in presenza di una situazione quantomeno tripolare, senza contare la sinistra di Pietro Grasso ed altre eventuali liste. Dunque la composizione del governo e della sua maggioranza, dopo il voto, potrebbe essere difficoltosa.
Massimo D’Alema giovedì ha detto che a suo avviso si andrà a un governo del presidente, con il sostegno di tutte le forze politiche responsabili, con un programma limitato. Il suo stesso partito, Leu, ha in parte bocciato, in parte ridimensionato la proposta: nè Laura Boldrini nè Pietro Grasso si sono mostrati entusiasti. Silvio Berlusconi esclude l’idea, ma senza sbilanciarsi troppo. E anche dal Pd si affrettano a dire che non governeranno con il centrodestra ma che è presto per fare ipotesi di questo tipo. Beppe Grillo assicura che il M5s non farà mai alleanze, ma Luigi Di Maio tranquillizza sul fatto che il suo movimento darà comunque un governo agli italiani.
Tutti sanno che se dopo il voto non ci sarà una maggioranza omogenea, tra alleati, si dovrà cercare una maggioranza trasversale perché l’idea di tornare al voto prima dell’estate con la stessa legge elettorale non dà garanzie di governabilità.
Chi frena più di tutti sulla formula del governo del Presidente è il Presidente. Sergio Mattarella non ama questo schema. Innanzitutto non intende far progetti prima di aver visto i voti reali dei cittadini, poi ricorda che tutti i governi sono parlamentari perché è dal Parlamento che ricevono la fiducia. Insomma, se e quando verrà chiamato a dirimere una situazione ingarbugliata sicuramente non si farà addossare l’onere di indicare un premier, ma chiederà ai partiti una assunzione piena e convinta di responsabilità.
La storia della legge Fornero durante il governo Monti, votata da quasi tutti e ora da quasi tutti attaccata, del resto, è solo uno degli esempi che consigliano cautela nella scelta della formula del governo del Presidente.