Mentre la violenza si riaccende a Gaza con 34 morti e più di 70 feriti in soli due giorni, non è mai stato più urgente far progredire la pace per palestinesi e israeliani. Non inganni il fragile cessate il fuoco ottenuto all’alba del terzo giorno di scontri: la terribile escalation di violenza dentro e vicino a Gaza serve da monito per tutti noi.
A 26 anni dagli accordi di Oslo, palestinesi e israeliani non possono più aspettare la pace. Nel frattempo però di sicuro non aiuteranno, nell’avvicinare la parti, l’accelerazione nel riconoscimento unilaterale, da parte degli Usa, di Gerusalemme come capitale di Israele; né il recente annuncio dell'ex assistente amministrativo del consulente di Trump Jared Kushner, come nuovo inviato in Medio Oriente; né tantomeno i risultati insufficienti usciti dalla conferenza in Bahrain dello scorso giugno.
Intanto però la comunità internazionale rimane inerte e il fallimento del “processo di pace”, avviato nel ’93, ha portato con sé la paralisi dell’economia palestinese, il quadruplicarsi del numero di coloni negli insediamenti israeliani illegali e il cronicizzarsi di un’occupazione che dura ormai da 52 anni senza nessuna reale prospettiva di pace per i Palestinesi, gli Israeliani e l’intera regione.
C’è ancora una speranza?
Di fronte allo stallo attuale, non resta quindi che chiedersi cosa succederebbe se finalmente si traesse insegnamento dagli errori del passato nel definire un nuovo, diverso e più inclusivo processo di pace.
È quanto cerca di individuare un nuovo rapporto di Oxfam, che raccoglie le testimonianze di tanti attori palestinesi, israeliani e internazionali in prima fila durante i 26 anni del processo di Oslo. Evidenziando i tanti errori commessi, che hanno avuto ripercussioni in tutto il processo e che lo hanno condannato dall'inizio al fallimento. Un lavoro di analisi realizzato, anche in ragione dell’impegno che Oxfam da oltre 26 anni mette in campo ogni giorno a fianco delle comunità più vulnerabili in Cisgiordania e Gaza.
Intrappolati in un tempo sospeso
Uno degli errori fatali degli accordi di Oslo è stata l’incapacità di vincolare le parti al “fattore tempo”, ovvero la capacità di richiamare alle loro responsabilità le parti che non hanno rispettato gli accordi. La prima conseguenza è che oggi i Territori Occupati Palestinesi rimangono intrappolati in un tempo sospeso. La Striscia di Gaza è dentro un blocco soffocante e i palestinesi, in gran parte della Cisgiordania, non possono godere della propria terra e sviluppare le proprie infrastrutture.
Gli accordi hanno infatti lasciato Israele sino ad oggi in pieno controllo della maggioranza della Cisgiordania, al contrario di quanto previsto negli accordi, che individuavano un periodo di transizione di 5 anni che avrebbe dovuto prevedere il passaggio graduale verso l’Autorità Palestinese del controllo civile e militare della Cisgiordania. La comunità palestinesi nel frattempo sono soggette a confische continue delle aree dove hanno sempre vissuto e all’espansione illegale, secondo il diritto internazionale, degli insediamenti israeliani.
Rigidità inutili e dannose
A tutto questo si aggiunge la rigidità e l’inadeguatezza di alcune disposizioni contenute negli accordi e delle successive “integrazioni”, che di fatto nel tempo hanno aggravato i bisogni delle comunità più vulnerabili. Un esempio lampante riguarda le assegnazioni di acqua stabilite nell'accordo di Parigi del 1995 ancora in vigore, che prevedono una quantità fissa di acqua per la popolazione palestinese della Cisgiordania, nonostante nel frattempo il numero di abitanti sia quasi raddoppiato.
L’incapacità o l’impossibilità di una mediazione internazionale
L'incapacità degli accordi di Oslo di includere riferimenti al diritto internazionale ha inoltre fatto sì che il conflitto sia visto solo in una ottica bilaterale, piuttosto che un conflitto in cui terzi riescono a svolgere un ruolo di mediazione costante e costruttivo. Nonostante siano stati un prodotto dell'intervento internazionale, gli accordi non prevedono infatti alcun ulteriore coinvolgimento di terzi, incluso il monitoraggio del percorso delineato, la responsabilità di eventuali violazioni o i meccanismi di risoluzione delle controversie.
Nel contesto attuale, quindi senza un forte sostegno esterno, i palestinesi non hanno alcuna leva da esercitare nei confronti di Israele rispetto a quelle che loro ritengono siano violazioni di quanto definito 26 anni fa.
Diritti umani dimenticati, donne e giovani palestinesi prime vittime del fallimento degli Accordi
Un’altra carenza fondamentale è stata l’incapacità di riconoscere e aderire agli standard sui diritti umani e il non coinvolgimento nel processo delle fasce più vulnerabili della popolazione. Non c'erano donne ai colloqui di Oslo, anche se è ormai internazionalmente riconosciuto che il conflitto è indissolubilmente legato alla mancanza di uguaglianza di genere, declinata in tutti gli aspetti della vita sociale. Un elevato livello di uguaglianza di genere la contrario offre una minore propensione al conflitto.
In più sono le donne palestinesi le prime vittime del fallimento degli accordi. Basti pensare che, nonostante un alto livello medio di istruzione, nel 2017 la disoccupazione femminile è aumentata del 3,1% raggiungendo il 47,4%, il tasso più alto al mondo. Assieme a loro i giovani che nonostante un tasso di alfabetizzazione del 96% non hanno mai votato, non hanno un lavoro o sono occupati nel settore informale.
Nei Territori Occupati Palestinesi la disoccupazione tra i 15 e i 29 anni arrivava nel 2017 al 43,3% (30,1% in Cisgiordania e 64,6% nella Striscia di Gaza), segnando il più alto livello di disoccupazione giovanile della regione.
Dal fallimento alla giustizia: forgiare un nuovo percorso verso la pace
I futuri negoziati, se vogliono quindi offrire concrete possibilità di pace, devono avere solide basi nel diritto internazionale, incluso il rispetto dei diritti umani, oltre a un forte impegno da parte di terzi.
Offrendo chiare tempistiche e chiare conseguenze per la mancata adesione, ma allo stesso tempo garantendo flessibilità per adattarsi ai contesti mutevoli. Le voci delle donne e dei giovani devono essere ascoltate.
Se questi criteri non verranno rispettati, i palestinesi e gli israeliani dovranno affrontare un altro quarto di secolo di instabilità, incertezza e violenza. La Comunità Internazionale non può permettere che ciò accada. In particolare l’Unione Europea, all’ultima chiamata per poter giocare un ruolo chiave in Medio Oriente.