Il tour degli U2 per il trentennale di 'The Joshua Tree' ha fatto ovunque il tutto esaurito, come ogni tour della band irlandese, ma per i fan ha avuto un significato particolare. Era la fine, per una volta, di quel refrain che accompagna l'attesa di ogni esibizione di un gruppo amato: "chissà se faranno questa canzone, chissà se faranno quella".
Di concerti degli U2 ne ho visti tanti e ogni volta - pur amando quando più, quando meno il loro nuovo album - mi sono trovato a sperare che Adam Clayton muovesse le dita sul giro di basso che apre 'New Year's Day' o che Larry Mullen attaccasse l'intro di batteria di 'Sunday Bloody Sunday'. E questo per una sola ragione, lo so bene: sono cresciuto con l'album 'Under a blood red sky' nelle orecchie, il più grande live che abbiano mai fatto. La mia adolescenza - quel periodo in cui la musica che ascoltiamo diventa parte integrante delle nostre cellule - è stata dedicata ad album come 'Boy', 'War' e 'October', quindi era giustificabile che come il cane di Pavlov aspettassi che almeno una sola di quelle canzoni sorgesse dal palco del tour di lancio di - ad esempio - 'Achtung Baby'.
Bene, con il tour del 2017 gli U2 hanno voluto fare un regalo a me e a quelli come me e hanno fatto tutte, ma proprio tutte le canzoni che aspettavamo di ascoltare. Meraviglioso, sì, ma si tratta di una eccezione.
Come è giusto, una band cerca di innovare, di far sì che ogni concerto sia diverso dal precedente per far vedere che è ancora creativamente vitale. E forse cerca anche di sfuggire a quella 'sindrome da cartellino da timbrare' che aveva portato Kurt Cobain a odiare l'idea di salire sul palco.
Ma proprio perché è un'esperienza unica, ogni fan che si rispetti vorrebbe perpetuare quelle emozioni, quelle sensazioni. Viverle ancora, anche ad anni di distanza.
E lo stesso accade con i grandi album: come rivivere quel meraviglioso, emozionante viaggio che è il primo ascolto?
Ecco, è a questo che pensavo quando ho visto i 'Musical Box' portare in scena all'Auditorium di Roma 'Genesis Extravaganza', uno spettacolo ispirato alla musica prodotta dalla band di Peter Gabriel & Co, dal 1970 al 1977. Le poltrone della sala Santa Cecilia, che può contenere più di 2.700 spettatori, erano tutte occupate e si percepivano una emozione e una attesa diverse da quelle dei concerti delle grandi band. Era l'attesa di rivivere un'emozione.
Vedere cinque maturi musicisti acconciati come i Genesis, con sul palco gli stessi identici strumenti può lasciare interdetti, ma quando comincia la musica e la voce a fluisce come quella di Peter Gabriel, ogni remora si dissolve e si capisce perché tutta quella gente è lì, perché applaude entusiasta. Non come se sul palco ci fossero i 'veri' Genesis, ma come se assistessero a una celebrazione. I Musical Box non stanno imitando o copiando, ma regalano quell'emozione che nessuno, nemmeno una reunion di Grabriel, Collins e gli altri, potrebbe regalare, perché loro sarebbero i primi a voler essere diversi da se stessi.
Lo spettacolo di una tribute band è più simile a un lavoro di ricerca filologica che a una semplice esibizione di virtuosisimi. Si capisce che dietro c'è un minuzioso studio delle sonorità scelte dagli artisti che quella musica l'hanno inventata. L'impostazione della pedaliera delle chitarre, la disposizione delle percussioni, tutto è riconducibile alle scelte fatte in origine, così come le movenze del cantante sul palco, le sue parole e il modo di pronunciarle.
E' una macchina del tempo fatta per far rivivere emozioni o per farle sperimentare a chi non le ha vissute. Una celebrazione della grande musica, più che un esercizio di stile.
Di tribute band ce ne sono moltissime in giro, poche veramente valide, come i BeaTers che si presentano in scena con abiti e capigliature dei primi Beatles e gli stessi strumenti, e quelle che funzionano sanno benissimo qual è il loro posto nella musica. Perpetuare un genio che non potrebbe ripetersi, innanzitutto perché non vuole. E continuare a offrire un'esperienza in cui il tempo perde di senso per lasciare spazio solo alle emozioni.