Ore 23 circa di un martedì di giugno, Roma. Rientro a casa stremato da uno spettacolo teatrale particolarmente insoddisfacente, affamato come solo la noia riesce ad affamarti, incazzato per essermi perso Nigeria-Argentina dei mondiali russi e la visione di uno dei più forti calciatori di sempre con la strizza per una eventuale esclusione dalla competizione. Accendo la Tv alla ricerca di qualche immagine della partita quando mi imbatto sul primo canale, danno la seconda serata dei Wind Music Award in diretta dall’Arena di Verona. Mi fermo, sarei dovuto essere lì per la registrazione dello show un paio di settimane fa per lavoro, ma poi non ne ho avuto la possibilità, allora voglio vedere cosa mi sono perso.
Sul palco ci sono due personaggi: un dj che smanaccia piccole manopole su una consolle e un ragazzino con un giubbetto di jeans che, movenze da rapper consumato, si dimena con un microfono in mano, sarebbe quasi credibile se non facesse venire seri dubbi sulla sua maggiore età. Copre un cinquantesimo del palco immenso dell’Arena; visto dall’alto, mentre lo calca, sembrerebbe una formica incastrata sotto un bicchiere di vetro che cerca disperatamente l’uscita. Fa quasi tenerezza. Il ritmo, le movenze e l’età che da Verona mi rimbalzano in casa attraverso lo schermo mi fanno scattare il “Trap Alert”, un dispositivo cresciuto spontaneamente dentro di me che mi avvisa quando qualcuno ascolta Trap nel raggio di un chilometro con puntualissimi conati di vomito.
È Sfera Ebbas… mmm… forse no… sìsì è lui, ma c’ha i capelli normali, si è tolto quella schifezza di colore dalla test… mmm… no, forse non è lui… ma chi è questo? E perché il pubblico dell’Arena di Verona è in delirio???” mentre una parte della mia testa produceva questi pensieri, un’altra parte rispondeva “Ma vuoi spegnere e andare a cercare su Google i gol dell’Argentina, santo cielo!?!?”. Ma la curiosità era troppa, Messi e compagnia bella ormai hanno fatto il loro, hanno vinto, passano il turno, metto già in frigo la birra in attesa degli ottavi di finale e chiedo a Shazam chi diavolo è sto ragazzetto che a quest’ora dovrebbe essere già a nanna e invece sta lì a cantare su Rai 1.
Appena mi appare il nome subito penso “Aaaaahhhh… allora è fatto così!”; trattasi di Capo Plaza, giovane trapper campano, 20 anni appena compiuti, che imperversa ai primi posti della classifica di Spotify da diverse settimane. Se non conosco la sua faccia è perché, parte della sfortuna (o fortuna?) del nuovo mercato discografico internettiano è che, non passando dalla Tv (perlomeno non in fase promozionale), molti giovani artisti assumono un volto solo per chi ha voglia di andare a guardare i loro video su YouTube. Nel caso di Capo Plaza, io personalmente, ho preferito evitare, ascoltare qualche suo pezzo mi bastava e avanzava. Io eh… perché quando il giovine Luca D’Orso, così risulta all’anagrafe, 8 mesi fa pubblica sulla piattaforma il video di Giovane fuoriclasse raggiunge 32 milioni di visualizzazioni. Fate conto che la città più popolosa del mondo, Shangai, conta 27 milioni di abitanti, per raggiungere le visualizzazioni di Capo Plaza con quel video dobbiamo aggiungerci più o meno, ho fatto i conti, la popolazione di Roma, Milano, Napoli e Torino. Incredibile.
La canzone con la quale, al momento, detiene il terzo posto della classifica di Spotify si intitola Tesla, e vanta il featuring di Sfera Ebbasta e Dref Gold. Mi sono concesso il lusso di ascoltarla ed è un esperimento che consiglio. Risulta affascinante tentare di capire chi canta quale pezzo della canzone, dato che l’autotune regna sovrano, rendendo totalmente piatte e uguali tutte le interpretazioni. Per chi si fosse collegato da poco con noi, ricordiamo che l’autotune è quell’effetto, ormai tipico del genere trap, che rende la voce di chi parla al microfono metallica come quella del computer della buon’anima di Stephen Hawking, ma molto più irritante.
La sensazione all’ascolto è quella di ascoltare un disco cantato dal navigatore, anche se scommetterei che se Google Maps avesse dei sentimenti sarebbero comunque più profondi di quelli espressi da questi giovanotti. Sui contenuti infatti sorvoliamo, solite spacconate ormai tipiche del genere trap: io dormo negli hotel a 5 stelle, il mio amico ne fa una (canna), la mia tipa c’ha le chiappe sode, vado forte con la macchina (che machi!) e scappo dalla polizia. Wow. Che emozione. Eppure i giovani che assistono allo show all’Arena di Verona, uno dei palchi più ambiti d’Italia, si genuflettono dinanzi a cotanta poesia. Perché? Non riesco a spiegarmelo. Non esiste un ritmo, non esiste una musica, non esistono musicisti, non esistono contenuti. Tutto è vuoto e molto poco interessante, molto poco figo, come mai allora così tanto clamore?
Torno con la memoria ai miei primi ascolti. Da ragazzino. Certo, anch’io ho ascoltato roba semplice in adolescenza, mi fossi messo in testa fin da bambino solo Pink Floyd e Bob Dylan a quest’ora probabilmente ammazzerei prostitute in tangenziale vestito da Puffetta come hobby domenicale. No, signori, c’è un’età per tutto. La mia adolescenza, da buon classe ’84, è stata caratterizzata essenzialmente da loro: gli 883. Il primo album che ho avuto della band di Max Pezzali risale al 1992 (Hanno ucciso l’uomo ragno), l’ultimo al 2000 (La dura legge del gol), insomma, se ci pensate, sono stati colonna sonora degli anni più delicati della nostra generazione.
Ci hanno preso bambini e ci hanno lasciati uomini. Sono stati musicalmente al centro di tutto, difficilmente ho ricordi delle mie prime esperienze con ragazzine o amici slegate dalle parole di una loro canzone; senza mai prenderci in giro, senza mai indorare la pillola, parlando sempre a noi, di noi, come buoni amici che ti ritrovavi dentro i Cd (si, i Cd) pronti a raccontare la tua storia. Si, lo so, i tempi cambiano, e si, lo so, recensire ventisei anni dopo Hanno ucciso l’uomo ragno definendolo un capolavoro assoluto risulterebbe vagamente di parte. Allora non lo dico, anche se voglio che sappiate che penso che Non me la menare possa rappresentare una sorta di trattato sociologico sui rapporti di coppia negli anni ’90 e Con un deca una descrizione quasi Baudelairiana della provincia italiana. Ma mi fermo qui, voi fate finta di nulla. Ciò che conta è che gli 883, per quanto potessero non entrare con i loro testi a gamba tesa nel dibattito politico e di certo non vantassero chissà quali eccellenti intuizioni musicali, comunque dicevano qualcosa di reale, qualcosa che ci riguardava nell’intimo; traducevano, semplicemente, i nostri sentimenti semplici di ragazzini semplici pronti a bombardare Tokyo con gli ormoni durante le notti passate in solitudine guardando le pubblicità hot sulle reti locali.
Niente di che eh, intendiamoci, i testi del buon Max non erano e non saranno mai complesse tesi filosofiche, ma rispecchiavano fedelmente la mia esistenza di adolescente, perché quello sul quale perdevo chilometri di pensieri nei pomeriggi vuoti e bui della mia provincia era, davvero, la motivazione che mi spingeva a pensare sempre a quella compagnetta di classe, Come mai era entrata nella mia vita? Come mai tutto ai miei occhi risultava cambiato? Come mai mi ritrovavo sul serio con la faccia affondata nel cuscino “… sperando per un sì…”? Come mai? E sfido chiunque a giudicare con i canoni classici della critica quel pezzo. Trascende. Gli si vuol bene e basta. Si piange e basta. Sentimenti semplici, ripeto, ma concetti ben definiti, con una musica melensa molto stile anni ’90 italiani, ottima per accompagnare la merenda con pane e Nutella, ok, d’altra parte eravamo in Italia nel bel mezzo degli anni ’90, ma comunque onesta. Sincera. Musica, soprattutto. Ci si provava e, spesso, riusciva. Suoni di pianoforti, bassi, batterie, chitarre… accordi. Note, perdio.
Allora, inutile star qui a commentare Capo Plaza, che in un’intervista sostiene essersi dovuto trasferire a Milano da Salerno perché lì la Trap “non veniva presa sul serio” (… i soliti terroni scemi e trogloditi, mica gente sveglia come al Nord); che questa musica gli ha salvato la vita perché non c’aveva voglia né di studiare né di lavorare (insomma, di fare un cazzo), giusto per restituirvi un’immagine degna dell’artista in questione. A questo punto, più che chiedersi cosa stanno ascoltando i ragazzini delle medie, bisognerebbe chiedersi cosa stanno provando. Davvero la loro preoccupazione è scappare dalla polizia? I soldi? Le droghe? Non dimentichiamoci mai che istintivamente, ne sono fermamente convinto da tempo, specie nella musica (così come, sto notando, in politica), siamo sempre molto attratti da chi ci dice ciò che vogliamo sentirci dire, che tendiamo l’orecchio sempre nella direzione di chi sta declinando il nostro stesso pensiero, qualcuno che possa mettere il timbro sulle nostre opinioni. Giusto per l’orgasmico sapore che procura dare ragione se stessi.
Questo vogliono ascoltare i nostri ragazzi 32 milioni di volte? Spero di no. Spero che la società abbia sballato, come a sette e mezzo, a tal punto da aver cambiato le regole del gioco; spero che certi argomenti, più per quanto noiosi, irreali, anacronistici e idioti che per quanto pericolosi, possano rappresentare qualcosa di esotico per i ragazzi che si avvicinano alla musica oggi. Spero ci sia un ragazzetto da qualche parte, insicuro, che si ponga tante domande e che cerchi le risposte nella vibrazione delle corde di un pianoforte, nelle parole di artisti ai quali possa legare ricordi meravigliosamente dolorosi; che possa riascoltare tra 26 anni quella musica e sorriderne. Come me, oggi. Che nel frattempo sono arrivato all’ascolto de’ La donna, il sogno e il grande incubo, bellissimo, e mi viene da pensare: chissà dov’è finita quella ragazzetta delle medie, e chissà se si ricorda ancora di me.