X Factor è senza alcun dubbio uno dei programmi più riusciti degli ultimi vent’anni di televisione italiana. Un programma girato e montato alla perfezione, con ritmi incalzanti e tempi morti ridotti all’osso. Un programma che arrivato all’undicesima edizione ancora restituisce, ma su questo a Sky sono cinture nere, la percezione dell’evento. Roba che tutta mamma Rai dovrebbe mettersi davanti allo schermo con il capo cosparso di cenere a prendere umilmente appunti su come si realizza una televisione moderna, che mette al centro la musica come neanche il baraccone di Sanremo riesce più a fare da tempo immemore.
Un programma gestito egregiamente dal più, indiscutibilmente, talentuoso conduttore italiano: Alessandro Cattelan, un ragazzo, un vero professionista, che riesce a giocare con tempi e linguaggi televisivi come solo i grandi di questo mestiere sono riusciti a fare.
Attenzione, un programma televisivo. Un programma televisivo che parla di musica. Vi piace più il termine talent? Nessun problema. Ma un talent che racconta il sogno di una manciata di ragazzi di sfondare come musicisti, con la musica ha a che fare poco o niente. Bene che questo sia chiaro. Tento di spiegarmi utilizzando una delle cose che più ho detestato nella vita, azione che però finalmente potrebbe, se non ripagare, almeno giustificare mia madre del patrimonio investito in inutili lezioni private con insegnanti dall’alito dello stesso colore del denaro che richiedevano: nero. Ovvero la matematica.
Si, ok, X Factor, così come qualsiasi altra uscita televisiva, potrebbe rappresentare una vetrina importante per farsi notare, per far vedere ad un numero molto elevato di persone cosa si sa fare, di cosa si è capaci (spesso poco o niente, e sono i momenti più divertenti. Si, sono uno stronzo). Ma su undici edizioni del programma (quattro su Rai2 piuttosto scialbe e sette su SkyUno decisamente più spettacolari) in quanti sono riusciti a trasformare il loro sogno in realtà?
X Factor serve davvero per diventare professionisti della musica? Facciamoci due conti. I partecipanti totali a X Factor, nelle prime 11 edizioni, sono stati 153. Centocinquantatré. 153 “Siiiiiii!”, 153 standing ovations, complimenti svergognati, scommesse su futuri certamente scintillanti all’insegna di un indiscusso, famigerato, fattore X e quarti d’ora di popolarità col fiato sospeso credendo, credendoci davvero, che allo scoccare del sedicesimo minuto tutto sarebbe rimasto lì, immutato, la gente ancora in piedi, le orecchie ancora tese nella tua direzione, i fari puntati addosso, uno studio gremito, tanto amore del pubblico. Lo share. La fama.
Ma così, sappiamo bene, è finita davvero per pochi. Quanti? 14. Quattordici su centocinquantatré. 14 tra cantanti e band che sono riusciti a farsi un nome più o, la maggior parte, meno riconoscibile. In 14 che sono riusciti a non finire scaricati, totalmente, nel dimenticatoio. Un posto brutto davvero. Il 9,15% dei partecipanti per l’esattezza, secondo un sito che mi ha aiutato a calcolare le percentuali (perdonami madre, soldi buttati dal primo all’ultimo centesimo). Sia chiaro, il motivo per cui a lasciare un’impronta sulla sabbia siano stati questi 14 e non gli altri resta un enigma che chi vi scrive non si sente in grado di risolvere, un mistero che probabilmente qualche Indiana Jones dell’anno 3000 studierà attentamente quando i fan di Young Signorino ci avranno resi schiavi e si cercherà di arrivare alla radice del triste decadentismo al quale stiamo assistendo negli ultimi vent’anni.
Chi è ancora nel mondo dello showbiz
Il calcolo infatti, ci tengo a specificarlo, è scevro di qualsiasi critica sul valore dell’artista in sé, altrimenti il risultato sarebbe stato davvero impietoso: 2 direi, ad occhio e croce.
Marco Mengoni, artista che è riuscito a trovare uno stile ben definito scrollandosi di dosso da subito la maschera da “coverizzatore seriale” e Moseek, una band che veniva da, ed è poi tornata nel, mondo a loro più consono dell’underground, a divertirsi sudando sui palchi dei club della penisola un sound accattivante che spero li porterà presto al successo un po' più allargato che meriterebbero. Ecco, due casi su centocinquantatré, nel caso vi interessasse il mio parere.
Ma ancora nel mondo dello showbiz circolano i nomi di Giusy Ferreri, che ha portato a casa un paio di tormentoni durati meno del dolore che hanno causato alle nostre anime; Noemi che di un talent (disastroso), The Voice, è diventata anche giudice; Cassandra Raffaele cantautrice discreta; Francesca Michielin che adesso sta tentando, teneramente, di liberarsi dal marchio di fabbrica del talent per rifarsi un look molto più “Indie”, il che fa piacere perché si dimostra ragazza intelligente, o consigliata bene; Chiara Galiazzo che abbiamo visto tre volte, abbastanza di sfuggita, sul palco dell’Ariston di Sanremo, non sappiamo in quale armadio venga riposta durante il resto dell’anno; Le Donatella, mitiche, che nessuno credo ricorderà mai per i loro pezzi ma in tanti (io sicuro) per la loro bellezza e per aver vinto, pensa te dove si rischia di finire, l’Isola dei famosi; Michele Bravi che ha rilucidato la sua popolarità su YouTube; gli Street Clerks che sono band resident di #EPCC, il divertente talk a cura dello stesso Cattelan; Lorenzo Fragola che continua a sfornare canzoncine tanto sempliciotte quanto ascoltate: tanto (troppo); Eva, che ha portato all’ultima edizione di Sanremo un brano molto bello scritto da uno dei più (il più per mio personale gusto) interessanti cantautori della scena indipendente e non, Dimartino; Davide Shorty, ragazzo dall’indiscusso talento con alle spalle un disco molto divertente uscito post-programma e che sta ripartendo piano piano dalla gavetta; e poi, naturalmente, i Maneskin, medaglia d’argento all’ultima edizione ma vincitori indiscussi in classifica, band romana che se giocherà di furbizia potrà ritagliarsi una sedia nel piccolo club dei non dimenticati, magari abbandonando i palchi più blasonati per buttare un po' di sangue face to face dinanzi un pubblico meno numeroso ma più “formativo”. Punto. Nessun fenomeno come avrete notato, anzi, molti li dimenticheremmo volentieri se ce lo permettessero. Comunque tutto qui. Il resto dei concorrenti, alcuni anche vincitori, non si sa bene che fine abbia fatto e quanti di loro riescano effettivamente a campare di musica.
Come si fa a sfondare nel mondo della musica?
Il ragionamento che ne consegue non può che essere uno: se si vuole sfondare nel mondo della musica, partecipare ad un talent musicale, anche se confezionato ottimamente come X Factor, matematicamente, non conviene. Il termine vetrina, non è usato a caso. Non si può accusare che il programma in questione, o proprio la televisione come mezzo in sé, tenti di tirare a fregare nessuno. In vetrina ci finiscono i prodotti del momento che, una volta (s)venduti o semplicemente passati di moda, vengono tolti dalla vetrina e riposti in magazzino. Così è. Vetrina vuol dire mercato. Vendita. Se hai voglia di metterti in vetrina il rischio è quello che, magari distratti dal contesto, a nessuno freghi nulla di te. Tutto ciò con la musica ha davvero poco a che fare.
Oggi non ci sarebbe più bisogno di X Factor. X Factor tanto è buono come prodotto televisivo quanto è anacronistico per la promozione musicale. La musica non passa più dalla tv ma dalla rete, che può essere spietata, certamente bizzarra alle volte, ma che restituisce un riscontro più onesto del prodotto che si propone. E comunque, grazie a Dio, non basta. Poi dovranno esserci i palchi, un sacco di fatica girando l’Italia mettendovi in tasca giusto i soldi per pagare la benzina di un pulmino scassato. Davanti ad un pubblico distratto da culi e birra, e che voi dovrete imparare a conquistare. Lì ci si forma come artisti. La televisione, e non mi sembra nemmeno un atteggiamento troppo scorretto, anzi, sarebbe stupido pensare altrimenti, forma personaggi televisivi, che poi per riscuotere una certa credibilità come musicisti, cantautori o interpreti, devono faticare il doppio.
Anche quando, tutto sommato, bravini. Non è un caso se chi scrive la storia della musica i talent li dribbla come Garrincha. Non solo in passato come la generazione di Daniele Silvestri, Max Gazzè, Baustelle, Zen Circus, Subsonica…che si sono formati quando non esistevano né i talent né Spotify, ma anche i più “nuovi” Brunori, Calcutta, Thegiornalisti, Lo Stato Sociale, Motta…tutti artisti nati e cresciuti, velocemente o meno e ognuno a modo suo, sulle tavole appiccicaticce di un palco.
Allora, prima di farvi affibbiare un numerino e mettervi in fila sotto il sole cocente del bel paese, ragionate molto attentamente su chi e cosa volete diventare come persone prima ancora che come artisti. Se davvero vi conviene provare a voler rientrare in quell’9,15% che ce l’ha fatta (e sempre e solo fino ad un certo punto). Se volete acquistare questo biglietto della lotteria. Se volete provare questo azzardo, col rischio di sputtanarvi tutte le possibilità che una crescita più lenta, matura e consapevole vi riserverebbe.
Se avete dentro di voi la necessità di esprimere qualcosa di interessante o se avete disperatamente bisogno di quel quarto d’ora di gloria, se avete solo fame di fama, di passare dallo schermo di casa mia per risolvere i vostri problemi personali. Io vi guardo, nessun problema, ma ho troppa roba più importante alla quale pensare una volta spento il televisore. Non me ne vogliate per questo.