La vittoria al Festival di Sanremo è uno di quegli avvenimenti che possono cambiare, ma non succede sempre, il corso di una vita. Non appena il conduttore pronuncia quel nome si entra improvvisamente in un evidentissimo tritacarne mediatico fatto di microfoni piazzati davanti alla bocca e flash che illuminano il cammino. Bastano poche parole per varcare un prima e un dopo, un bivio, una strada che magari si passa anni a sognare, ma che finisce inevitabilmente per celare aspetti che finché si è nella propria cameretta a cantare con la spazzola in mano non si considerano, troppo distratti da tutti gli effetti benefici che la popolarità porta al proprio ego, ma che poi si ripropongono regolarmente come la peperonata della sera prima.
Insomma, come diceva Oscar Wilde, “attento a cosa desideri, potresti ottenerlo”. Chissà se il giovane Alessandro Mahmoud, in questi giorni post Sanremo di trottole infinite tra un salotto e un altro, una città e un’altra, un canale tv e un altro, ha trovato il tempo per rifletterci? Probabilmente. Questo perché Mahmood rappresenta un caso unico nella storia del festival, che se finora era stato capace di cambiare il futuro degli artisti in gara, con lui è andato oltre, riuscendo a trasformare anche il suo passato. O almeno provandoci.
La storia del padre egiziano e della presunta troppo poca “italianità” del ragazzo, ricordiamo, nato e cresciuto a Milano, dopo aver raggiunto apici di preoccupante bassezza social/civile, oggi sta diventando talmente tanto forzata da strappare una sincera risata, di quelle che ti piegano in due dal dolore allo stomaco.
Interno giorno, post-pranzo, Domenica In. Mara Venier ospita in studio il giovane vincitore di Sanremo:
Venier: “Ho letto che lavoravi in un bar di San Babila e non sapevi fare il cappuccino?”.
Mahmood: “Tutti con questa storia del cappuccino…no, è che all’inizio bisogna prendere la mano”.
Venier: “Però dopo un po' ci sei riuscito, ti alzavi prestissimo alle 4 del mattino”.
Mahmood: “Perché il pomeriggio dovevo andare a studiare pianoforte”.
Venier: “Il tuo papà se n’è andato molto presto di casa”.
Mahmood: “Sì, sono cresciuto con mamma”.
Venier: “E tu hai sofferto di questo allontanamento?”
Mahmood: “No. Ho passato un’infanzia e un’adolescenza bellissime. Mia mamma non mi ha mai fatto mancare niente. Ero un bambino felice”.
Venier: “Si è fatto vivo?”
Mahmood: “Si, ci siamo sentiti.”
Venier: “Da piccolo sei andato due volte a El Cairo, lì hai visto molta povertà, non sei rimasto colpito?
Mahmood: “No, non è che abbia visto tutta questa povertà, io ho dei ricordi bellissimi. Ho visto bambini giocare scalzi per il quartiere ma erano comunque felici. Mi piacerebbe tornarci.”
Venier: “Magari a farci un bel concerto. Sarebbe bellissimo. Un bel riscatto anche, no? Tornare lì e dimostrare quello che sei e cosa stai facendo”.
Mahmood: “No…vabbè, voglio solo essere felice.”
Povero Mahmood, sballottato da studio a studio e spulciato per cercare un caso umano a tutti i costi, come se vivesse nell’Italia parodiata di Maccio Capatonda. Era il doverti alzare alle quattro per andare a fare cappuccini al bar? No. Era il papà andato via di casa? No. Era il razzismo ai tempi della scuola? No. E allora cosa Mahmood?? Bullismo, omosessualità, eri troppo magro, troppo grasso, il peggiore della classe a giocare a pallone in cortile? Dovrai avere qualcosa, no? Possibile che sei l’unico figlio di migrante felice e contento? Possibile che in un paese che vuole affondare barconi, sparare a chi ti entra in casa e cacciare via a calci chiunque sia anche solo sospettosamente troppo abbronzato, tu sei l’unico, con quella faccia lì e quel cognome lì, a vivere serenamente? Non ti si può proprio credere.
Una ricerca telegiornalistica spasmodica, lui vince Sanremo e il padre firma autografi in Egitto. Nessuno che gli ponga una domanda legata alla musica, a cosa può significare la vittoria del festival per un pezzo che rappresenta, perlomeno rappresenta, qualcosa di nuovo (a Sanremo, visto che la rete è ingolfata di brani simili da almeno due anni); al perché si è messo accanto per una gara canora così lontana da schemi azzardati, due producer come Durdust e Charlie Charles; sul suo passaggio da autore a cantante, da dietro a fuori le quinte del palco. No. Niente.
Solo il papà troppo egiziano per permettergli di vincere il festival della canzone “cribbio!” italiana, e la mamma quindi di conseguenza troppo poco sarda, se la matematica non è un’opinione (o sarà la Sardegna troppo poco italiana? Tenere a mente punteggi e graduatoria è sempre un casino ormai).
La presunta omosessualità, il rapporto con i fans, con i social, con il quartiere di Milano e perfino con l’Egitto (“Niente niente sarai mica nipote di Mubarak??!”, qualcuno ci avrà pensato sicuro, ammettetelo). Un voyerismo irritante, a tutti i costi, impossibile da non accostare al clima politico che stiamo vivendo, dato che nessuno l’edizione del festival precedente si è chiesto se Ermal Meta, nato a Fier, in Albania, quindi il doppio più migrante di Mahmood, fosse troppo poco italiano per vincere Sanremo, e nemmeno stanotte qualcuno, ne siamo certi, si è posto il problema se Rami Malek, figlio di genitori immigrati egiziani (Toh! Le coincidenze!), fosse troppo poco americano per vincere un Oscar.
Allora vuol dire che in questo paese e nell’ultimo anno qualcosa è cambiato: da un lato, dove si indica con sospetto, social tra i denti, chiunque non faccia di cognome Bianchi, Rossi, Brambilla o simili; e dall’altro, dove maldestramente tutto deve diventare una battaglia politica da alimentare con una mano e cavalcare con l’altra. E di mezzo la tv della zia Mara, della zia Barbara o della zia Maria. Perché questo siamo in fondo: nipotini da intrattenere sperando facciano meno danni possibile.
E al centro di questa mortificante tormenta culturale Mahmood, che subito dopo l’annuncio della vittoria, mentre il secondo in classifica Ultimo, seduto accanto a lui, straparla a proposito di giornalisti e giurie radical sovversive, lui nemmeno ci fa caso; che quando Salvini gli manda un sms per congratularsi della vittoria dopo quel post, se non velatamente razzista, perlomeno equivocabile (tant’è che poi da lì è partita la campagna d’odio contro l’egiziano che ci ruba i primi posti a Sanremo), lui risponde che non c’è problema, che sapeva che non c’era niente di personale.
Il Mahmood che risponde sempre educato e sorridente, e che no, lui nonostante un padre egiziano che ha abbandonato la famiglia come milioni di altri padri, italiani e non, fanno ogni giorno, lui è felice. Che sì, nonostante per un periodo della sua vita si è dovuto alzare alle 4 del mattino per fare cappuccini, lui è felice, lavorare è il destino di moltissimi ragazzi che decidono, come ha fatto lui, di abbandonare gli studi dopo il liceo.
Speriamo che il suo non fare da sponda a chi in lui ci vede solo un contenuto televisivo interessante da spremere, possa far esaurire al più presto le ospitate da vincitore del festival e dare inizio a quelle da artista vero, con una storia da raccontare che però, spiace molto, non riguarda barconi, Ramadan, bombe, spaccio, Mediterraneo, islam, Isis, 35 euro, ONG e invasioni varie. Ma solo di un padre stronzo, di amori che cominciano e finiscono, di storie di un qualsiasi quartiere periferico italiano.
Della vita insomma, quella che Mahmood affronta in “Gioventù Bruciata” il suo album post sanremese; e lo fa anche discretamente bene con un sound che, per quanto nuovo non riusciamo proprio a definirlo (impossibile dopo aver assistito ad una fin troppo lunga serie di esplosioni trap), perlomeno ha portato una ventata di freschezza sul palco dell’Ariston; anche se, c’è da dirlo, nonostante l’apertura “indie” di Baglioni, anche quest’anno per avvertire una brezza fresca e leggera bastava che qualcuno sganciasse silenziosamente un peto.
E Mahmood conserva la sua educazione e compostezza democristiane e nazional popolari anche in tutti gli altri brani del disco, non si fatica infatti a comprendere come mai abbia, solo nell’ultima settimana, incrementato i suoi ascolti del 1,039.8%. Perché ha ragione zietta Mara, che tutti ci conosce da così tanto tempo e così bene: è che è proprio un bravo bravo ragazzo. Pardon, nipotino.