A che punto è la fiducia degli italiani nei media e nel giornalismo? Quotidiani e televisioni tradizionali non stanno tanto bene, e neanche web e social possono vantare una salute di ferro. I motivi? Facile dare la colpa alle fake news, che sono l’epidemia del momento. Ma anche su queste gioca una certa suggestione alimentata dagli stessi media. Meglio, molto meglio, puntare il dito su un nemico esterno (quelli che immettono notizie false in rete senza essere professionisti dell’informazione) che analizzare le proprie colpe e cercare di rimediare. Nel sempre più difficile contesto della credibilità dei media, prova a fare un po’ di chiarezza l’ultimo rapporto “News-Italia”. La ricerca condotta dal dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università di Urbino, analizza infatti il fenomeno delle “fake news” in rapporto alle abitudini degli italiani che si informano tanto in rete quanto sui media tradizionali.
Il risultato a mio modo di vedere più preoccupante dell’indagine, basata su oltre mille interviste, non è la quantità di fake news che circolano (oltre la metà degli utenti dichiara di incontrare spesso notizie false in rete), quanto il fatto che gli stessi intervistati dichiarino di aver maggiore fiducia nella capacità della rete di informare in modo “completo, accurato ed equilibrato” (62%) rispetto ai media tradizionali, quotidiani, tv e radio (49%).
La scarsa fiducia nei confronti dei media tradizionali è confermata da una analisi che classifica i rispondenti in base alla loro posizione complessiva di fiducia nel sistema dei media. Meno di uno su dieci dichiara infatti di avere fiducia nei soli media tradizionali.
Questo dato deve preoccupare non per la supremazia della rete in sé che, certo, per chi sa navigare, è molto più ricca di fonti e offre maggiori opportunità di raggiungere un grado di informazione più obiettiva, ma perché la sfiducia nei media tradizionali è sintomo di una perdita di credibilità dei giornalisti e del loro modo di interpretare la professione.
Il male è dunque più profondo e radicato di quanto si pensi. Non possiamo accontentarci di mettere sul banco degli imputati le fake news, ma dobbiamo interrogarci sul modo in cui abbiamo interpretato la professione negli ultimi venti anni. Non è internet il problema. Non è la rete ad aver scardinato la fiducia nell’informazione professionale. Siamo stati noi giornalisti ad aver abbandonato ogni tensione verso i principi etici e di obiettività che sono alla base della professione: abbiamo progressivamente sacrificato lo spirito di servizio nei confronti dei lettori per abbracciare un protagonismo da star. Non è un caso che in questi anni la perdita di credibilità del giornalista sia andata di pari passo con la crisi di un’altra immagine: quella del politico.
Non dico si debba tornare ai quotidiani tutto piombo del primo Novecento. Non dico che si debbano mitizzare trasmissioni ingessate come la vecchia Tribuna elettorale. Ma lì i ruoli erano ben precisi, ben delineati: i giornalisti stavano da una parte, i protagonisti (politici e non) dall’atra. Compito dei primi era tirare fuori notizie dalle risposte degli altri e verificarle. Oggi i talk show sono prima di tutto un palcoscenico per i giornalisti, che cercano di imporre la propria visione del mondo, piuttosto che fare emergere quella degli altri. Ecco, qui è morta la nostra credibilità. Quando abbiamo cominciato a pensare che fare informazione di servizio fosse superfluo e pure frustrane e riduttivo, abbiamo cominciato a morire lentamente. Andando avanti pe questa strada finiremo tutti protagonisti del nulla.