“Coloro che fanno del proprio credo una legge più alta della verità, di fatto attaccano le fondamenta del nostro sistema costituzionale. Non ci può essere legge più alta nel giornalismo che raccontare la verità e smascherare la menzogna”.
La citazione, per quanto attuale, non deve trarre in inganno. Non è estrapolata dall’ennesimo articolo sulle fake news, la post-verità, il fact-checking. Termini diventati improvvisamente di moda, ma che fanno parte della storia del giornalismo e della sua evoluzione. Il brano in questione è stampato su un libro del 1920: “Liberty and the News” (First Princeton paperback edition, 2008). L’autore è Walter Lippmann, uno dei più influenti giornalisti politici americani, co-fondatore di The New Republic e autore del fondamentale saggio sulla formazione dell’opinione pubblica (“Public Opinion”, 1922).
Lippmann, che aveva appena attraversato l’orrore della Prima Guerra Mondiale, era ossessionato dagli effetti della propaganda e riteneva che il giornalismo avesse una funzione fondamentale nel combatterla. Come? Difendendo i processi professionali che sono alla base della ricerca della verità. Lippmann era profondamente convinto che vi fosse una connessione necessaria e imprescindibile tra verità e libertà, entrambe, quindi, essenziali a ogni democrazia.
Il giornalista americano scriveva in un’era che non aveva ancora conosciuto il proliferare dell’informazione: la radio non trasmetteva ancora programmi di news, la televisione non esisteva, tantomeno i canali all news, internet e social media. L’informazione era ancora circoscritta al passaparola o all’esclusivo mondo dei quotidiani, per chi sapeva leggere. Il ciclo della notizia era enormemente più lento. Potevano passare giorni prima di sapere che un fatto era accaduto. Eppure, evidentemente, il problema delle fake news, della propaganda politica, della menzogna e delle bufale esisteva ed era pure un problema fortemente sentito.
Le fake news sono state al centro anche del Festival della Tv e dei nuovi media che si svolge in questi giorni a Dogliani, nelle Langhe. Dagli interventi dei giornalisti presenti è emersa anche una sincera autocritica: per combattere le “bufale” e la “post-verità” è necessario ripartire da una analisi sincera ed accurata anche dei nostri fallimenti. Il giornalismo deve avere il coraggio di tornare alle proprie responsabilità fondamentali, al diritto del pubblico a una informazione accurata e corretta, base di ogni democrazia, la stampa deve ristabilire il suo ruolo di controllore del potere ufficiale. Il giornalismo deve coltivare l’obiettività, senza mai perdere di vista il suo compito: informare i cittadini in una società democratica.
Un compito complicato, forse oggi più difficile che mai. Internet e i social media hanno disintermediato il rapporto tra fonti e cittadini. La velocizzazione del ciclo della notizia ha spinto i giornalisti a rilanciare post o tweet dei politici e di altre fonti senza alcuna verifica. Così ci siamo trasformati in “microfoni”, amplificatori acritici, senza valutare la rilevanza dell’informazione o il suo contenuto di verità, compito più alto del giornalismo, come ricordava Lippmann.
Negli ultimi venti anni ci siamo concentrati sulla rivoluzione digitale, giustamente. Ma, non altrettanto correttamente, abbiamo dimenticato il metodo: quella parte di regole professionali che hanno fatto in 200 anni di storia del giornalismo una professione autorevole e rilevante.
Dobbiamo tornare al giornalismo come metodo metodo professionale. Per questo in Agi abbiamo istituito il fact-checking che non è portatore di una verità certa e assoluta. Ma è un metodo, anzi il metodo, per avvicinarsi ad essa, con la consapevolezza che nella nostra professione la verità conta, ancora, nonostante i successi delle fake news e della post-verità.
Per uscire da questa “crisi della verità” c’è forse solo una strada diritta: tornare alle “ethical news”, costruite con deontologia, accuratezza e professionalità. Dobbiamo riscrivere il nostro patto con i lettori perché se non usciamo dal deficit reputazione che oggi affligge la professione, questi finiranno per mettere tutto sullo stesso piano: vero, verosimile e palesemente falso.
Gli errori che abbiamo commesso in questi anni ci hanno allontanato da quella tensione verso l’obiettività che i giornalisti devono tenere sempre e comunque davanti a loro come un faro che li guida. Una obiettività che non deve essere una parola magica, un paravento dietro al quale nascondersi. L’obiettività deve essere il presupposto per la ricerca della verità, la spinta verso una procedura operativa che costringa eticamente il giornalista a suffragare quanto scrive o dichiara con elementi di prova, riscontri di fonti e documentali, descrizioni dei contesti in cui i fatti si svolgono. Se il giornalismo continuerà a riportare acriticamente l’ultima dichiarazione resterà, inerme, prigioniero delle opinioni. Ma la nostra professione è, prima di tutto, scovare i fatti rilevanti per l’opinione pubblica e raccontarli con onestà. Perché la democrazia ha bisogno di verità e libertà per poter esistere.