Forse ha ragione Mark Zuckerberg: Facebook è più un Tripadvisor dei “luoghi di delizia pieni” che un social network per le news che, è bene ricordarlo, per oltre due secoli sono state il “luogo” della formazione dell’opinione pubblica, funzione che, almeno in parte, svolgono ancora oggi. Così, almeno, sembra ragionare il suo fondatore, che ha deciso di demandare agli utenti la scelta di quali testate siano autorevoli e quali no.
Nell’ultimo decennio ci siamo abituati, ed abbiamo apprezzato, il citizen journalism, l’informazione che arriva dai cittadini. Il campo di gioco dell’informazione si è enormemente allargato introducendo nuove regole: professionisti e appassionati delle notizie, del dibattito pubblico, hanno imparato, non senza qualche difficoltà, a confrontarsi, a giocare insieme, spalla a spalla.
Ma la proposta di Mark Zuckerberg sembra investire i cittadini di un nuovo ruolo: quello dell’arbitro, notoriamente figura che dovrebbe collocarsi al di sopra delle parti. Gli utenti, due miliardi di iscritti al social network, oltre a diffondere, discutere e in alcuni casi produrre notizie, si troveranno nella posizione di gran giurì popolare, in grado di decidere quali testate siano credibili a quali no, cosa dovremmo leggere e cosa no sul social network.
Il “principe” di Facebook ha candidamente ammesso che non si sentiva a proprio agio nel dover discernere tra informazione seria e di qualità e fake news. Quindi meglio, molto meglio, affidare questo delicato compito alla community. Quando si dice il rimedio peggiore del male: se il problema sono le fake news, l’informazione truffaldina, la propaganda politica che gli utenti diffondono sul social network, come può essere che questi stessi utenti siano arbitri di se stessi? Come è possibile affidare loro il giudizio su quali testate siano autorevoli e quali fonti attendibili?
E, soprattutto, se la maggior parte di queste notizie distribuite sulla piattaforma arrivano da testate poco credibili, perché quegli stessi utenti dovrebbero penalizzarle rallentandone la diffusione sul social network? Si è interrogato Zuckerberg su quali interessi, anche economici, scatenerà questa “opportunità”? E, se sì, quali risposte si è dato? Piacerebbe conoscerle, per approfondire il dibattito che la proposta ha suscitato.
Ma c’è una questione ancora più importante. Le notizie sono materia delicata. Possono danneggiare persone, aziende, partiti politici, come lo stesso Zuckerberg, alla fine, ha dovuto ammettere nel caso Trump-Clinton nelle elezioni Usa del 2016. Esiste un codice dentologico, esistono alcune regole professionali che regolano il giornalismo. La violazione di queste regole e le relative sanzioni è materia di giudizio di organi terzi e, nei casi più gravi, della magistratura.
Lo ha ben spiegato il giurista Guido Scorza sull’Espresso: “L’informazione, perché ci sia democrazia, è e deve restare tutta uguale fino a prova contraria e la prova contraria non può che essere valutata da un Giudice o, in casi eccezionali, da un’Autorità amministrativa indipendente nell’ambito di un giusto processo e in nome, solo ed esclusivamente, della legge”.
Con questa mossa, Zuckerberg sta chiedendo ai suoi utenti, perché lui non si sente a proprio agio nel farlo, di distinguere le opinioni dai fatti e, nel caso di questi ultimi, decidere quali siano veri e quali falsi. Ma ha idea di quanto lavoro richieda, anche a un giornalista, la verifica delle fonti? Temo di no, purtroppo.
Ho un presentimento: tutti gli utenti di Facebook che seguono testate di qualità riterranno queste le più autorevoli. Ma tutti gli altri? Se rilanciano e discutono di notizie poco attendibili o palesemente false, perché dovrebbero dare pollice verso a quegli stessi organi di informazione e, in alcuni casi, di palese disinformazione? Se il problema è che sul social network circolano troppe fake news promosse dagli utenti, chi uscirà vincente dal verdetto della giuria popolare di Facebook? L’impressione è che il “principe” voglia governare senza accettare l’età adulta che, in ultima analisi, si traduce nel farsi carico delle proprie responsabilità. Professionali e non.