Il progetto era pronto, bisognava solo trovare il tempo per dargli corpo. Un libro, da scrivere forse una volta raggiunta la pensione, e proprio lì, nella casa di Poggio Vitellino, frazione di Amatrice. L’idea, che tanto aveva affascinato e divertito Elena Polidori e il marito Filippo Ceccarelli, entrambi giornalisti di Repubblica, era nata da un insolito ritrovamento: una filastrocca, venti quartine per un totale di ottanta endecasillabi, di Giuseppe Gioacchino Belli, inedita e custodita dalla Biblioteca Nazionale di Roma. Non un inedito qualsiasi perché questa volta il poeta si cimentava non in romanesco, ma nel dialetto di Amatrice, dove, evidentemente, doveva aver trascorso un periodo tra il 1818 e il 1822:
“Affaccete a la finestra, o faccia bella
Naso de neve bocca inzuccherata
Ch’io te la voglio fa la serenata
Te la voglio sonà la ciaramella
Uè uè uà; uè uè uà…”
Amatrice, 24 agosto 2016: alle ore 3 e 36, una scossa di magnitudo 6,5 della scala Richter, la prima di una serie devastante (30 ottobre, 17 gennaio), si porta via il progetto del libro e con esso la casa di Poggio Vitellino, tutta Amatrice e parte del centro Italia. Tabula rasa. «Ero lì con marito, figlia e cane», racconta Elena Polidori che di libri ne ha scritto un altro, l’unico che avrebbe fatto volentieri a meno di raccontare: “Amatrice non c’è più, ma c’è ancora” (Neri Pozza Editore, Vicenza 2018, pp. 238, euro 13,50).
Questo racconto, che esce a due anni dal terremoto, si aggrappa allo spazio della memoria per fare rivivere un luogo che non c’è più e che, così com’era, non tornerà mai più. Eppure è un libro di grande passione, vissuta con intensità, che non si arrende neanche quando l’oggetto di tanto amore incondizionato, la vita ad Amatrice e la casa di Poggio Vitellino, è raso al suolo, non esiste più se non nei massi accatastati ai lati delle strade.
L’autrice, che ha deciso di devolvere i proventi della vendita del libro al Comune di Amatrice “per ogni necessità di ricostruzione, a cominciare da Poggio Vitellino”, attraversa la storia della propria famiglia, rimette insieme ricordi e racconti nel tentativo di cristallizzare una realtà perduta, perché è consapevole che nulla potrà mai tornare come prima: potrebbe diventare meglio o, più probabilmente, molto peggio, ma in ogni caso la ricostruzione non potrà riprodurre quell’equilibrio “magico” che aveva forgiato generazioni di amatriciani, stanziali o di ritorno.
Un racconto lucido e appassionato che attraversa il secondo Novecento e parte di questo secolo: gli inverni, con la neve e il maiale ammazzato e poi lavorato; il camino con le sedute laterali per scaldarsi; i letti di ferro battuto e le lenzuola di lino, ma ruvide, con l’immancabile “prete”, come veniva chiamata la struttura lignea che sorreggeva lo scaldino con la brace; l’odore perenne della legna bruciata, il profumo dell’inchiostro e i bambini che “nascevano in casa con la levatrice”; le passeggiate nei boschi andando “a funghi”, tra cerri, castagni, querce e faggi; il pestaggio dell’uva a piedi nudi; le procedure per togliere “lu malocchiu”; il bagno nell’acqua gelida lago, anche se quella “melmetta sotto i piedi faceva un po’ schifo”; e poi il pollaio, i muli, vero quando non unico mezzo di trasporto, e, soprattutto, le pecore, le tante pecore del mondo pastorale di Amatrice. Ma anche caprioli, aquile, lupi e cinghiali “che entravano e uscivano dal Parco del Gran Sasso”. Tutto questo aveva regolato la vita quotidiana per generazioni nella casa arroccata sul Poggio Vitellino, fino a quell’ultima estate del 2016. La fine di Amatrice. La fine di Poggio Vitellino. “Poi, la fine del mondo”.
Così nella narrazione la storia del “piccolo mondo antico” si intreccia con quello che rimane: macerie, sassi ovunque; il popolo dei selfie che fa sbottare il sindaco Sergio Pirozzi, “Non venite a farveli sennò mi incazzo”; le visite, anche a sorpresa, come quella del Papa, che nella zona proibita, avvolto nell’abito bianco, “ha pregato in silenzio, tra le pietre e la polvere”; e ancora il premier canadese Trudeau, il principe Carlo d’Inghilterra, Angela Merkel e i tanti politici italiani. “Viste le lungaggini, inevitabilmente i politici iniziarono a temere fischi e contestazioni e diradarono le presenze. In ogni caso tutti, con regolarità, hanno promesso: ‘non vi lasceremo soli’, ‘non vi abbandoneremo’”.
Oggi la ricostruzione ha la forma delle casette gialle: “Le SAE, in gergo tellurico, cioè Soluzioni Abitative di Emergenza, ma la “e” naturalmente ha già cambiato nome: ora sta per Eterne. Gli sfollati non nutrono tanta fiducia” perché, come ricorda Polidori, “i governanti per loro natura e mestiere promettono. Ma il tempo … è un giudice infallibile e anche piuttosto severo”.