Articolo aggiornato il 3 maggio 2018 alle ore 14,00.
Da quando Matteo Salvini ha lanciato la sua corsa verso Palazzo Chigi sono due le parole che sono state bandite dal linguaggio, e dalle grafiche, della Lega. Parliamo, ovviamente, di Nord e Padania. Una decisione sofferta che per i leghisti più radicali ha significato mettere un freno al sogno iniziale del partito tra gite a Pontida e tracciamenti di confini immaginari. Ma alla base di tutto c’è una scelta di comunicazione politica che sta portando il leader del Carroccio a conquistare la leadership del centrodestra.
Una mossa, silenziosa, che mira a consolidare quella credibilità politica mai considerata possibile fino a qualche mese fa. Una scelta che, finora, ha pagato. Elezioni dopo elezione, Regione dopo Regione. La Padania, ma più nominata, sta prendendo lentamente corpo allargandosi a macchia d’olio in quei territori che la Lega degli anni ’90 rivendicava con comizi strepitanti e caricaturali. Oggi invece sono gli elettori e i follower, la comunicazione offline e online, ad aver assicurato a Salvini quello che i suoi predecessori avevano solo sognato. Il Nord.
La mappa che girava il 4 marzo
Vi ricordate la mappa che girava dopo le elezioni del 4 marzo? Parlo di quella gialla che metteva a confronto le Regioni del sud, interamente o quasi conquistate dal Movimento 5 Stelle, e il vecchio Regno delle Due Sicilie. Un paragone storico, anche un po’ goliardico, che restituiva un’immagine efficace di quello che era appena accaduto dentro alle cabine elettorali del Meridione.
Qualcosa di simile, ma di molto più concreto, avveniva al Nord. Salvini ha iniziato una partita a Risiko in cui la strategia più importante, come nel famoso gioco da tavolo, è nascondere l’obiettivo finale muovendosi con i tempi e le truppe giuste per arrivarci. I carri armati colorati, schierati in massa durante la campagna elettorale, sono stati rappresentati da quei grandi temi, spesso populisti, che hanno permesso di vincere battaglie e spazzare via i nemici ormai disancorati dalla realtà. I leghisti di oggi non fanno più le ronde ma si muovono all’interno dei social network e dei gruppi su Whatsapp. I soldati arruolati dalla Lega non hanno una divisa, non sono più sceriffi o giustizieri, ma operano sul web tra selfie e videochat raccontando, per filo e per segno, quella che potremmo chiamare la “Salvini Second Life”.
Un impero sempre più verde
L’inizio dell’ascesa leghista è avvenuta presto, nel 2010, con la vittoria di Luca Zaia in Veneto. Il primo tassello di un puzzle in cui i venti di secessione soffiavano forti. Il Veneto era allora il punto di inizio per costruire la Padania tra slogan e bevute. Un’illusione che sembrava prendere forza con l’arrivo di un secondo tassello: l’elezione di Roberto Cota in Piemonte. Era il 2011. Le urla si facevano ancora più forti e il distacco da “Roma Ladrona” era una necessità. Il punto più alto fu l’arrivo di Roberto Maroni al governo della Lombardia, nel 2013, ancora una volta, come in Veneto, raccogliendo l’eredità di un berlusconiano.
Poi tutto cambiò: i problemi giudiziari del Partito e la guerra di successione, la sconfitta in Piemonte nel 2014 (non c'era candidato leghista ma uno di Fi dopo l'annullamento dell'elezione di Cota), e la fine di un processo di crescita a cui nessuno, in fondo, aveva dato credito. Gli scandali (2012), raccontati a voce altissima, sembravano aver messo in crisi un sogno a cui nessuno credeva più. A parte Salvini che, divenuto segretario nel 2013, aveva già iniziato a mettere le basi per un partito diverso, con una squadra di professionisti pronti a rivoluzionarne l’immagine e i dettami. Ci sono voluti alcuni anni di attesa per preparare terreno e strategie, per sconfiggere le correnti interne, per ergersi ad alleato, e ora erede, di Berlusconi. Nel 2018 il progetto Lega 2.0 è divenuto realtà. La conferma della Lombardia con Attilio Fontana, e l’acquisizione, odierna, del Friuli Venezia Giulia con Massimiliano Fedriga, hanno ridisegnato ancora una volta il Nord, dipingendolo di un verde che sembra, però, non essere destinato a scolorire in fretta e furia come avvenuto in passato.
Cosa succederà in Piemonte e in Emilia Romagna?
Considerando la Liguria un feudo amico, Giovanni Toti è una figura gradita al Carroccio, ci sono due pezzi da conquistare per vincere la partita a Risiko: il Piemonte e l’Emilia Romagna. Una battaglia non lontana visto che si andrà al nel 2019. La coalizione del centrodestra parte in pole position visto che, il 4 marzo, ha ottenuto in entrambe le Regioni più voti delle alte forze politiche. Un exploit, soprattutto in Emilia Romagna, difficile da prevedere. Forza Italia è convinta che a Torino siederà il suo candidato, Alberto Cirio, annunciato a gennaio, europarlamentare, restato fuori dalle candidature nazionali proprio in vista della corsa a Palazzo Lascaris. Una decisione presa però prima che il terremoto del 4 marzo radesse al suolo tutte le certezze e cambiasse i rapporti di forza all’interno del centrodestra. Anche in Piemonte, infatti, la Lega ha surclassato nettamente il Partito di Berlusconi (al Senato 22,6 % contro 14%). E non è un caso se Matteo Salvini non ha ancora parlato di candidati, appoggi, sostegni. La questione è delicata e le parole, all’interno di Carroccio, si misurano con il contagocce. Soprattutto quando il sogno padano, silenziato e mai abbandonato, è giusto a un colpo di dado dal diventare realtà.