Recentemente il controvalore dei titoli di Stato con rendimenti negativi ha raggiunto la ragguardevole cifra di 17.000 miliardi di dollari, corrispondenti a circa un quarto del totale in circolazione. Sono negativi i tassi applicati a gran parte dei titoli emessi dalla Svizzera, dal Giappone, dalla Germania, dalla Francia, dall’Olanda e da altri Paesi europei. Se poi si fa riferimento ai tassi reali, al netto dell’inflazione, il fenomeno assume dimensioni inusitate.
Appare lecito chiedersi quali siano le ragioni per cui gli investitori sono disposti a pagare per avere il privilegio di prestare i propri soldi a questi emittenti. Chi si occupa di finanza proverà a spiegare che nella costruzione di un portafoglio di investimenti è importante assicurare un’adeguata diversificazione attraverso un mix di attività i cui rendimenti siano decorrelati e che quindi non si muovano tutti contestualmente nella stessa direzione. Ha quindi senso investire in titoli considerati “sicuri” e che in caso di una crisi dei mercati siano in grado di controbilanciare le perdite sugli altri titoli in portafoglio.
In altri termini, questi titoli sarebbero considerati, al pari di altre attività come l’oro che non produce interessi, dei “beni rifugio” per acquisire i quali si è disposti anche a pagare una sorta di premio assicurativo, rappresentato dal rendimento negativo.
Questa spiegazione non convince del tutto. E’ difficile infatti considerare “beni rifugio” tutti i titoli che oggi mostrano tassi negativi e inoltre il fenomeno si inquadra in un più ampio contesto di significativa contrazione dei rendimenti di tutta la filiera internazionale dei titoli obbligazionari. Solo per fare un esempio, i tassi applicati ai titoli decennali emessi dagli Stati Uniti sono passati nell’ultimo semestre dal 3% all’1,6%.
Per comprendere il processo in corso nei mercati finanziari appare quindi senz’altro più utile fare riferimento ai fattori che lo hanno innescato. Su questi non sembrano esservi dubbi: la correzione dei mercati ha preso avvio quando le principali banche centrali (FED e BCE) hanno lasciato intendere di essere pronte a sospendere e invertire il processo di “normalizzazione” della politica monetaria avviato qualche anno fa. Ma per inquadrare meglio la successione degli eventi è opportuno fare un passo indietro, ricostruendo le misure adottate dalle banche centrali prima e dopo la crisi del 2008.
Come tutte le crisi finanziarie, anche quella del 2008 è stata una crisi di liquidità. Le bolle si formano sui mercati con la stessa dinamica di uno “schema Ponzi”: esse continuano a gonfiarsi finché c’è qualcuno disposto a entrare nel gioco investendo la propria liquidità. Quando questo afflusso di liquidità cessa, il castello crolla e tutti cercano di uscirne fuori facendo precipitare i prezzi delle attività finanziarie e/o immobiliari.
La bolla scoppiata nel 2008 si era gonfiata lungo un ventennio più o meno corrispondente al periodo in cui Alan Greenspan è stato Presidente della FED. Nel ’96 egli attribuì a una “esuberanza irrazionale” la crescita esponenziale delle quotazioni, salvo poi cominciare anche lui a non escludere che forse “questa volta era differente” e che l’aumento della produttività consentito dall’informatica poteva giustificare in qualche modo un aumento costante dei prezzi delle attività finanziarie, in particolare dei corsi azionari.
Fatto sta che, quando a cavallo fra il ’99 e il 2000 l’inflazione statunitense ebbe una recrudescenza, la FED non ebbe remore ad abbandonare la politica monetaria accomodante adottata per tutto il decennio precedente e alzò il tasso di rifinanziamento fino al 6,5%. Il conseguente restringimento della condizioni di liquidità innescò pressoché immediatamente lo scoppio della bolla delle cosiddette “dotcom”, cioè di quelle società informatiche che dovevano alimentare la produttività e sostenere le quotazioni.
A posteriori, si potrebbe discettare se non sarebbe stato più saggio consentire alla bolla di sgonfiarsi, nonostante i danni collaterali all’economia reale che ciò avrebbe comportato. Probabilmente, infatti, questi danni sarebbero stati nettamente inferiori a quelli patiti dopo il 2008 e inoltre sarebbe stata l’occasione per ridiscutere le controverse misure di deregolamentazione del sistema creditizio e dei mercati finanziari assunte negli anni ’80 e ’90, che avevano sicuramente facilitato l’insorgere e lo sviluppo della bolla.
La decisione della FED fu comunque diversa e fu quella di riaprire celermente i rubinetti della liquidità per consentire un recupero dei mercati. Con una successione ininterrotta di tagli, i tassi di rifinanziamento della FED furono portati in un biennio all’1% e la giostra poté così ripartire, questa volta estendendosi al settore immobiliare. Fu a seguito di queste misure che fu coniato il termine “Greenspan put” (con riferimento a un contratto finanziario con cui ci si copre da eventuali perdite future) per indicare la polizza assicurativa che egli stava fornendo ai mercati.
Greenspan lasciò la FED nel 2006 e poté così dedicarsi a studi e conferenze milionarie, consegnando la patata bollente della gestione della futura crisi al suo successore Ben Bernanke. Questi era ben consapevole dell’anomala euforia dei mercati che egli riconduceva a un fenomeno di “saving glut”, vale a dire un eccesso di risparmio e di capitali rispetto alle occasioni di investimento, che causava una crescita delle quotazioni azionarie e contribuiva a tenere bassi i tassi di mercato. Probabilmente, egli non aveva tuttavia contezza delle dimensioni raggiunte dal “mostro” e della magnitudo del terremoto che era in grado di sprigionare.
Solo quando fu deciso di lasciare fallire la Lehman Brothers il 16 settembre 2008, divenne subito e drammaticamente chiaro il livello di interdipendenza che ormai legava a livello planetario il sistema finanziario. Nei giorni immediatamente successivi al fallimento di Lehman il sistema dei pagamenti internazionale rischiò di collassare, mentre il contagio della crisi si allargò rapidamente colpendo, non solo in USA, altri istituti finanziari e poi estendendosi come una metastasi al settore reale.
La risposta delle autorità statunitensi fu di dimensioni straordinarie. Furono generosamente ricapitalizzati tutti i principali istituti creditizi del Paese nonché le banche d’affari (quali Morgan Stanley e Goldman Sachs) le quali solo recentemente erano entrate nell’olimpo finanziario cavalcando la bolla. Diverse importanti aziende americane, fra cui in particolare quelle del settore automobilistico, furono sostanzialmente nazionalizzate. Infine la FED prima ricondusse rapidamente il tasso di rifinanziamento dal 5,5%, cui era stato portato nel giugno 2006, allo 0,25% e poi intraprese una serie di acquisti di attività finanziarie (titoli di stato, mutui e prodotti derivati) per un totale di oltre 3.500 miliardi di dollari (il cosiddetto “quantitative easing”).
Di fronte alla drammaticità della crisi, pertanto, le autorità americane (e, come vedremo, anche quelle europee) non ebbero dubbi su chi, fra creditori e debitori dovesse essere tutelato: il mantra adottato fu che bisognava guarire Wall Street per salvare Main Street. Successe così che proprio quel sistema finanziario che dagli anni ’90 si era battuto con successo per ridurre l’intervento pubblico sul settore attraverso un’ampia deregolamentazione chiedeva ora a gran voce, e otteneva, la mobilitazione di tutte le risorse dello Stato a proprio favore.
La cosa più scandalosa fu che nessun pagò per quanto accaduto: le autorità pubbliche che avevano avallato una sciagurata deregolamentazione del sistema finanziario; gli accademici che avevano decantato le virtù del liberismo e dell’arretramento dello Stato nell’economia; la variegata fauna degli esponenti della finanza che si erano spudoratamente arricchiti alimentando la bolla; le società di rating che avevano attribuito la tripla A (equivalente all’assenza di rischio) alle tranche superiori dei mutui subprime cartolarizzati. Tutti restarono al loro posto e, dopo il salvataggio operato dai bistrattati Stati, poterono continuare a predicare e ad arricchirsi, gonfiando ulteriormente la bolla.
Come sappiamo, Wall Street fu salvata, ma Main Street continuò a soffrire e poi scatenò la sua rabbia nelle cabine elettorali dando vita al movimento “populista” che ha portato all’elezione di Trump.
Anche la risposta dei Paesi europei avrebbe segnato gli sviluppi politici di cui oggi siamo testimoni. La Germania si oppose sin da subito a un intervento comune di salvataggio condotto dall’Unione Europea. Assumendo una posizione che manterrà negli anni a seguire (vedi gestione della crisi greca), essa escluse che i propri contribuenti fossero chiamati a pagare per il salvataggio di altri Paesi. Inizialmente, Angela Merkel riteneva che la crisi sarebbe rimasta confinata nei Paesi anglosassoni dove si era originata, coltivando un’inconfessabile “shadenfreuden”. Quando però si rese conto che anche le banche tedesche erano pesantemente coinvolte, acconsentì a una sospensione della normativa che vietava gli aiuti di Stato, permettendo così ai singoli Stati di intervenire in soccorso delle proprie banche. Il governo tedesco impegnò 250 miliardi in questi salvataggi.
A sua volta, la risposta della BCE, sotto la guida dell’allora Presidente Jean Claude Trichet, fu inizialmente tiepida. Dopo aver ricondotto il tasso di rifinanziamento all’1% dal 4,25%, dove era stato portato nel luglio 2008 (!), inopinatamente lo rialzo all’1,5% nel primo semestre del 2011, probabilmente accelerando la crisi finanziaria del nostro Paese.
Fortuna volle che nel novembre 2011 Mario Draghi successe a Trichet e subito si impegnò per un ammorbidimento delle condizioni monetarie. Non fu un’impresa facile, per l’opposizione di altre membri del Consiglio Direttivo della BCE, come dimostrato dalle dimissioni polemiche del rappresentante tedesco nel board. Solo nel 2015, ed in contraccambio dell’introduzione delle controverse regole del fiscal compact, Draghi riuscì a far decollare il quantitative easing europeo e solo nel 2016 il tasso di rifinanziamento fu portato allo 0% e quello sui depositi bancari presso la BCE al -0,4%, livelli che mantengono ancora oggi.
Il quantitative easing europeo terminò nel dicembre 2018 e nello stesso mese la Fed, proseguendo nel difficile e contrastato processo di normalizzazione della politica monetaria avviato tre anni prima, aumentava il tasso di rifinanziamento al 2,5%. La risposta dei mercati, ormai completamente dipendenti dalla droga della liquidità delle banche centrali, fu estremamente negativa, con un significativo calo dei corsi azionari e un aumento generalizzato dei rendimenti obbligazionari.
Il resto è storia recente. La pressione dei mercati, aggravata dall’inedito contenzioso valutario fra gli USA e l’Europa, hanno indotto prima la FED e poi la BCE a tornare sui propri passi dichiarandosi disponibili a un nuovo allentamento delle condizioni monetarie. Tanto è bastato perché i mercati, con nuova droga nelle vene, rimbalzassero celermente, con un aumento generalizzato dei corsi azionari e soprattutto di quelli obbligazionari. Ricordiamo a quest’ultimo proposito che il valore di un bond è legato inversamente a quello dei tassi di mercato. Se questi scendono, sale il valore dei titoli obbligazionari già in circolazione.
Il mistero dei tassi negativi trova così una risposta nella dinamica della bolla in corso. Così come si è disposti ad acquistare un titolo azionario a un prezzo esorbitante rispetto ai suoi fondamentali nella speranza di rivenderlo a un prezzo ancora maggiore, allo stesso modo chi acquista un bond con rendimento negativo non lo fa con l’intenzione di tenerlo fino a scadenza, ma con quella di guadagnare da una sua futura cessione a un prezzo maggiorato. Chi avesse comprato bund tedeschi un mese fa, quando esibivano un tasso negativo dello 0,20%, oggi con i tassi a – 0,70% potrebbe rivenderli con un significativo guadagno. Naturalmente, il gioco funziona finché vi sono nuovi flussi di liquidità disponibili a parteciparvi. Per una legge fisica, prima o poi le bolle scoppiano.
Come giudicare l’operato delle banche centrali in questo contesto? Ovviamente, non rientra nei loro compiti fornire la benzina per alimentare le bolle e sicuramente non era questo l’obiettivo che si proponevano con le misure adottate. L’obiettivo era invece quello di stabilizzare il sistema finanziario, consentendogli di veicolare la liquidità ricevuta verso attività produttive, finanziando gli investimenti delle imprese e rilanciando l’economia reale.
Questo obiettivo è fallito, ma sarebbe errato attribuirne la colpa alle banche centrali. Il problema è che, come ha dimostrato l’ormai quasi trentennale crisi giapponese, lo scoppio di una bolla creditizia determina un fenomeno di “deleveraging”, in cui non c’è istituzione, impresa o famiglia che non dia corso a un processo di contenimento dei costi e di razionalizzazione delle spese. In questa situazione, cui si accompagna un abbattimento strutturale della domanda delle famiglie, le imprese non hanno alcun interesse a indebitarsi ulteriormente per effettuare nuovi investimenti. A loro volta gli Stati, anch’essi impegnati a contenere il debito pregresso, non sono in grado di effettuare manovre espansive, supplendo alla carenza di investimenti privati.
E’ successo così che il fiume di liquidità fornito pressoché gratuitamente dalle banche centrali non siano andati a sostenere gli investimenti e la crescita, ma si siano invece diretti verso i mercati e la speculazione, inflazionando i prezzi delle attività finanziarie e alimentando la bolla.
Per spezzare questo circolo vizioso occorrono idee e strumenti innovativi. Le banche centrali ne sono ben consapevoli e hanno da tempo avviato un dibattito al proprio interno volto ad arricchire la cd “cassetta degli attrezzi” di cui dispongono. Vedremo a quali risultati porterà questa riflessione, ma la gravità della situazione giustifica l’adozione di misure (quale ad esempio la rimozione, sia pur temporanea, del divieto di finanziamento diretto degli Stati) che sino ad oggi è stato considerato tabù solo prendere in considerazione. Adesso che anche la Germania sta entrando in recessione, è lecito sperare in una maggiore flessibilità delle autorità europee.