E’ notizia di pochi giorni fa che il costo della benzina nei distributori sulle autostrade italiane ha sfondato il prezzo di 2 euro a litro. La ragione, ci spiegano i giornali, è da ricondurre all’impennata del prezzo del petrolio a causa dell’ulteriore inasprimento delle pesanti sanzioni unilateralmente imposte dagli Stati Uniti all’Iran.
Gli Stati Uniti hanno infatti comunicato che da maggio sono revocate le residue esenzioni sin qui accordate alle esportazioni di petrolio iraniano in sette Paesi, fra cui l’Italia. Il maggior costo del petrolio si traduce in una tassa aggiuntiva a carico dell’economia del nostro Paese e sorprende quindi che la circostanza venga derubricata dalle autorità politiche e dagli organi d’informazione come una “ordinaria” fatalità che non merita di essere ulteriormente elaborata. Eppure, ci si dovrebbe chiedere in nome di quale principio dobbiamo subire questa tassa.
Abbiamo già avuto modo di ricordare, commentando la vicenda dell’arresto della vicepresidente della Huawei, come gli Stati Uniti abbiano recentemente stracciato, dopo averlo firmato pochi anni prima, il trattato internazionale con l’Iran con cui quest’ultimo si impegnava a cessare ogni attività di arricchimento dell’uranio, in cambio della rimozione delle sanzioni cui era sottoposto.
Il trattato era stato sottoscritto anche dagli altri quattro membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu oltre alla Germania e all’Unione europea. Tutti questi ulteriori firmatari si sono rifiutati di seguire la decisione statunitense, rimanendone anzi costernati. Gli ispettori dell’ONU, incaricati di controllare il rispetto delle condizioni del trattato, avevano infatti certificato la costante e puntuale osservanza da parte dell’Iran degli impegni assunti.
Tuttavia, la vicenda ci ha anche rivelato che nel libero mercato internazionale vi è un attore che è più uguale degli altri, ed è quello che tiene il banco e dà le carte. Avvalendosi della propria posizione di principale centro finanziario internazionale e della funzione del dollaro come moneta di scambio privilegiata, gli Stati Uniti sono stati così in grado di imporre le cosiddette “sanzioni secondarie” con cui vengono colpite le aziende straniere che non rispettano quanto da loro deciso. Ne sa qualcosa la nostra Unicredit, la quale giusto pochi giorni fa ha patteggiato una transazione di 1,5 miliardi di dollari (non proprio una bazzecola) con le autorità americane, per chiudere un contenzioso riguardante presunte operazioni con l’Iran in violazione di sanzioni stabilite dalla giurisdizione Usa.
Ora, sembrerebbe lecito chiedersi quali siano gli indifferibili interessi geopolitici che hanno indotto gli Stati Uniti ad assumere una decisione che li ha posti in contrapposizione con i suoi più stretti alleati e che è gravida di potenziali pericolosi sviluppi. Le giustificazioni ufficiali che fanno riferimento alla necessità di contenere il terrorismo promosso dall’Iran appaiono risibili. Basti ricordare che i terroristi islamici sono pressoché tutti di matrice sunnita e costituiscono un comune nemico di Stati Uniti e dell’Iran sciita, come dimostra il fatto che i due Paesi hanno combattutto tre anni fa fianco a fianco contro l’Isis nella battaglia per la riconquista di Mosul in Iraq.
Il fatto che si ricorra a giustificazioni artificiose lascia intendere che quelle effettive siano indicibili. Di fatto, le misure contro l’Iran sembrano mal conciliarsi anche con gli altri obiettivi geostrategici perseguiti dall’attuale amministrazione americana. Esse paiono contraddire infatti l’annunciato disimpegno statunitense dalle missioni militari all’estero, mediante il ritiro, fra l’altro, dalla Siria e dall’Afganistan.
Inoltre, fra i Paesi più colpiti dall’aggravamento delle sanzioni vi sono la Turchia, l’India, la Cina, la Corea del Sud e il Giappone, i quali dipendono significativamente dalle forniture iraniane. Colpire economicamente questi Paesi non sembra nell’interesse strategico degli Stati Uniti. La Turchia, membro della Nato, è un attore decisivo nel Medio Oriente con cui è necessario concordare il ritiro dalla Siria. L’India è una democrazia filooccidentale che nella strategia americana dovrebbe porsi come un argine al predominio asiatico della Cina.
A loro volta, il Giappone e la Corea del Sud sono alleati storici e geostrategicamente importanti degli Stati Uniti e inoltre il loro contributo è decisivo per raggiungere un accordo col regime di Pyongyang. Riguardo a quest’ultimo obiettivo strategico dell’amministrazione Trump è importante acquisire anche il concorso della Cina, con la quale sono inoltre in corso trattative per un nuovo accordo per gli scambi commerciali. E’ difficile pensare che queste trattative possano essere agevolate dall’imposizione di sanzioni secondarie alla controparte.
In definitiva, le misure contro l’Iran stanno alienando il favore dei principali alleati e inoltre sembrerebbero non coerenti con gli stessi interessi geopolitici statunitensi. A rendere ancora più arcano il mistero dei motivi della loro assunzione vi è la circostanza che esse, a differenza di altre decisioni di Trump, sono state ampiamente condivise dal Congresso.
Forse, per fare chiarezza può essere utile volgere l’attenzione a chi ha accolto favorevolmente le decisioni sull’embargo iraniano. In fondo, si tratta solo di due paesi: Israele e Arabia Saudita, i quali da qualche anno a questa parte stanno cementando un’alleanza basata sulla comune avversione all’Iran. Certo, è inquietante pensare che per gli Stati Uniti gli interessi di questi due Paesi prevalgono su quelli del resto del mondo e, apparentemente, in parte anche sui propri, ma i fatti sembrerebbero dimostrare che le cose stanno così.
D’altra parte, non è un mistero che Israele sia di fatto oggi il principale alleato degli Stati Uniti, dove può beneficiare dell’appoggio di una potente e influente lobby che gli consente di gestire questo rapporto in una posizione non subordinata. Più enigmatico è invece il rapporto simbiotico che sembra legare gli Stati Uniti alla monarchia assoluta dell’Arabia Saudita. Sappiamo bene che alla base di questa relazione “speciale” vi è il petrolio e il percorso virtuoso del denaro che prima si dirige verso il produttore e poi torna indietro sotto forma di investimenti. Tuttavia, questo legame d’interessi non sembra sufficiente a giustificare la tolleranza statunitense nei confronti dell’appoggio della monarchia all’estremismo salafita.
Valgano per tutti tre episodi. Nel 2013, in una mail diffusa da Wikileaks Hillary Clinton, allora segretario di stato, si mostra preoccupata dell’appoggio che i sauditi stanno fornendo all’Isis, ma non risulta che abbia compiuto atti conseguenti. Nel 2015 il presidente Obama mette il veto a una legge, approvata con ampia maggioranza bipartisan dal Congresso, che consentiva di condurre indagini su un eventuale coinvolgimento di autorità saudite negli eventi dell’11 settembre 2011. Poche settimane fa è stato invece il presidente Trump a mettere il veto sulla decisione del Congresso di interrompere il supporto logistico e di intelligence fornito dagli Usa all’intervento militare dell’Arabia Saudita in Yemen, in considerazione delle crisi umanitaria che tale intervento aveva determinato.
Ma lasciamo da parte i misteri di questa indissolubile alleanza degli Usa con i due Paesi mediorientali e chiediamoci invece quali siano gli obiettivi che si intendono perseguire con l’imposizione delle “più severe sanzioni della storia umana”, come le ha entusiasticamente definite il segretario di stato Mike Pompeo. Secondo le dichiarazioni ufficiali, l’obiettivo sarebbe un “regime change”. L’intento sarebbe quindi quello di affamare il popolo iraniano inducendolo, magari con qualche “aiutino” dall’esterno, a rovesciare l’attuale regime. In questo modo, ci spiegano, gli iraniani riconquisterebbero la libertà e tutti sarebbero contenti.
Ci sono fondati dubbi che questo sia il piano di Israele e sauditi. In fondo, anche con un nuovo regime gli iraniani resterebbero pur sempre sciiti e la Persia resterebbe una potenza regionale. Per costoro, la soluzione preferibile, auspicata esplicitamente da qualche politico israeliano, sarebbe far tornare quel Paese all’età della pietra o, secondo una versione più moderata, per lo meno distruggerne tutte le infrastrutture militari e industriali, rendendolo innocuo per qualche generazione. Affinché ciò accada è però necessario che l’Iran faccia la prima mossa di reazione.
Di fatto, sembra proprio che questi due Paesi non attendano altro che l’Iran, stretto in un angolo e costretto a una grave crisi economica, reagisca con atti eclatanti come ad esempio la più volte minacciata chiusura dello stretto di Hormuz, cruciale per il passaggio navale delle forniture di petrolio saudite. Un tale atto non solo porterebbe alle stelle il prezzo del petrolio con intuibili conseguenze sull’economia mondiale, ma renderebbe anche pressoché inevitabile un intervento militare statunitense, dando vita a un escalation molto pericolosa, in quanto difficilmente controllabile nei suoi sviluppi.
C’è da dubitare che l’Arabia Saudita abbia ben ponderato tutte le possibili conseguenze di questa vicenda. La fragilità della sua struttura statale e del proprio apparato militare la esporrebbe infatti facilmente a una rappresaglia iraniana che potrebbe rivelarsi devastante. E’ altamente probabile invece che tali sviluppi siano ben chiari al governo israeliano che appare come il vero regista di questa iniziativa. Un eventuale bombardamento missilistico iraniano dei propri territori sarebbe infatti l’occasione attesa per ridisegnare la cartina geografica e politica del Medio Oriente, se necessario anche con la bomba atomica. D’altronde, quando si ripresenterà un’occasione come la Presidenza Trump che ha già sfidato il mondo e il diritto internazionale per stracciare il trattato con l’Iran, spostare l’ambasciata a Gerusalemme e più recentemente per riconoscere l’annessione israeliana delle alture del Golan?
E a dir poco imbarazzante il ruolo di spettatori impotenti che noi europei sembriamo esserci riservati in questa vicenda, nonostante rischiamo di subire conseguenze ben più gravi dell’aumento di benzina citato all’inizio. Formalmente, cerchiamo di mantenere in vita il trattato con l’Iran, ma di fatto queste buone intenzioni si scontrano con l’indisponibilità delle imprese a rischiare di incappare nelle sanzioni secondarie americane. Un’impotenza che dovrebbe far riflettere.