Nei giorni scorsi è giunta la buona notizia, rara di questi tempi, che i nostri maggiori istituti di credito avevano superato brillantemente i test di adeguatezza patrimoniale condotti dalla Vigilanza europea.
Questi test sono costruiti ipotizzando degli scenari “avversi” e verificando poi come gli stessi impattano sulla situazione patrimoniale delle banche. E’ interessante notare che fra i fenomeni “avversi” individuati a suo tempo (gli stress test sono stati condotti oggi, ma a valere sulla situazione della banche a fine 2017) si annovera uno spread di 250 punti.
Quello che solo un anno fa appariva come una situazione al limite e comunque grave è stata quindi superata dagli eventi, considerato che il nostro spread si muove da tempo su valori intorno ai 300 punti.
Cosa indica lo spread
Ma perché lo spread è così importante da essere monitorato quotidianamente come un termometro della situazione finanziaria del nostro Paese?
Come tutti gli italiani hanno ormai imparato, è il differenziale di rendimento fra un titolo di stato con scadenza a dieci anni del nostro paese (BTP) e quello omologo della Germania (Bund). Si sceglie la Germania perché si ritiene che questo Paese sia, oggi e nel prevedibile futuro, pienamente solvibile, in grado cioè di onorare puntualmente i suoi impegni finanziari.
Quanto sono affidabili gli altri Paesi
Questa reputazione trova conferma nel fatto che la Germania è uno dei sei paesi del mondo, nonché il più grande degli stessi, a cui tutte e tre le principali agenzie di rating attribuiscono il giudizio massimo di tripla A. A titolo di confronto, si tenga conto che non fanno parte di questo piccolo club gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Giappone.
I Bund sono pertanto considerati “free risk” (privi di rischio) e di conseguenza il differenziale di rendimento che i titoli di altri Paesi esibiscono riflette il livello di rischio che i mercati attribuiscono all’investimento negli stessi, chiedendo una maggiore remunerazione per assumerli.
I rischi cui i mercati prestano attenzione sono quello di insolvenza, la possibilità cioè che in futuro il debitore non sia più in grado di onorare i suoi impegni finanziari, e quello ancora più grave di ridenominazione, di cambiamento cioè della valuta con cui sono espressi e quindi rimborsati i titoli, come sarebbe ad esempio il caso, perorato da qualche buontempone, in cui l’Italia uscisse dall’euro e tornasse a una lira svalutata.
Perché l'Italia non è considerata affidabile
Fatte queste premesse, occorre chiedersi tuttavia perché a giudizio dei mercati l’Italia corra il rischio di non essere in grado di ripagare i propri debiti oppure addirittura di trovarsi nella situazione di uscire dall’euro. A questo fine può essere utile il ricorso a qualche dato e a qualche fatto.
Il debito pubblico italiano ammonta a circa 2.300 miliardi. In termini assoluti è il terzo del mondo dopo quelli degli Stati Uniti e del Giappone che però si confrontano con economie ben maggiori della nostra. Il Pil italiano è pari a circa 1.700 miliardi ed è ancora inferiore a quello che avevamo dieci anni fa, prima della crisi finanziaria, dopo la quale abbiamo subito due pesanti recessioni nel giro di sette anni.
Come è stato costruito il debito italiano
Il debito pubblico italiano comincia a crescere a partire dalla seconda metà degli anni ‘70, quando si attestava a poco più del 50 per cento del PIL, e questa crescita prosegue poi accelerando per tutti gli anni ’80. Fra i diversi fattori che hanno contribuito a questo incremento impetuoso rileva sicuramente l’introduzione nel nostro ordinamento di importanti istituti di stato sociale, quali la riforma previdenziale, che si rivelò poi eccessivamente generosa, e un sistema sanitario pubblico che purtroppo impiegò decenni prima di pervenire a un livello minimo di efficienza.
Non aiutarono il mutamento dei trend demografici e il conseguente progressivo invecchiamento della popolazione e, a metà degli anni ’80, il brusco calo dell’inflazione che ridusse la possibilità di ripagare nel tempo un debito sempre più svalutato. Di fatto, nel giro di dieci anni il rapporto debito/Pil raddoppiò, passando al 100%, e poi continuò a crescere nei primi anni ’90, fino a raggiungere il 125%. Si trattava con ogni evidenza di un chiaro indizio che stavamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi.
Cosa ha fatto Soros all'Italia
Il risveglio ebbe luogo nel ’92, quando, sulla scia di una crisi valutaria innescata da un’operazione speculativa del finanziere Soros, fummo costretti a una pesante svalutazione, a una significativa manovra correttiva di bilancio e alla cessione sul mercato di importanti asset pubblici. L’opinione pubblica italiana, gran parte della quale si autoassolse rapidamente, spazzò via nelle successive elezioni politiche la classe politica che aveva sin lì governato il Paese e aprì la strada alla cd “seconda repubblica”.
I “nuovi” governanti, spesso lasciando il “lavoro sporco” ai tecnici, tentarono con alterne fortune di aggredire il debito pubblico, mediante la progressiva riforma del sistema pensionistico e successivi tagli alla spesa pubblica, in particolare quella riguardante gli investimenti.
Per effetto di queste e altre misure l’Italia è riuscita a conseguire costantemente negli ultimi 25 anni (con l’unica eccezione del 2009) un avanzo primario positivo, vale a dire un saldo positivo fra entrate e uscite pubbliche al netto degli interessi sul debito. Ciò significa che da un quarto di secolo il nostro Paese, se non dovesse pagare gli oneri sul debito pregresso, presenterebbe un’eccedenza di mezzi finanziari a disposizione.
In ogni caso, questi sacrifici portarono a qualche risultato, posto che nel 2007 il rapporto debito/Pil era tornato intorno al livello del 100%, ma poi la crisi finanziaria del 2008 e la doppia recessione che ne seguì invertirono la tendenza e il rapporto risalì sin all’attuale 132%.
Cosa sarebbe successo senza la Bce
Come già ricordato, le due recenti recessioni sono state particolarmente severe, ma avrebbero avuto conseguenze ancor più negative se la Banca Centrale Europea (BCE) non avesse lanciato nel 2015 il programma di acquisti di titoli di Stato (cd “quantitative easing”) che ci ha consentito di mantenere relativamente bassi i relativi rendimenti. A ben vedere, tuttavia, anche a prescindere dalla fasi recessive, non si può non notare che negli stessi 25 anni in cui abbiamo registrato un avanzo primario positivo l’economia è cresciuta a un ritmo costantemente e significativamente inferiore a quello di quasi tutti i nostri partner europei. La cosa non può sorprendere, considerato che il contenimento del bilancio pubblico comporta necessariamente degli effetti deflattivi.
Gli anni '80 ci hanno lasciato una pesante eredità
In definitiva, il debito pubblico che abbiamo ereditato dagli anni ’80 è un bubbone difficile da debellare e che condiziona il nostro futuro. L’avanzo primario che abbiamo faticosamente raggiunto e mantenuto per un lungo periodo copre solo una parte degli interessi annui, mentre per pagare la parte residua dobbiamo indebitarci ulteriormente. A cio si aggiunge che ogni anno dobbiamo “rinnovare” circa 350 miliardi di debiti in scadenza; in sostanza, ci indebitiamo per ripagare i debiti pregressi e una parte degli interessi sugli stessi. I tecnici del Ministero dell’Economia sono diventati bravissimi a gestire il nostro debito, cercando di allungare le scadenze medie, posizionando le aste in periodi in cui c’è meno competizione da parte di altri debitori, accumulando debito quando la situazione dei tassi è più favorevole. Ciò non toglie che restiamo in una situazione precaria esposta alle perturbazioni dei mercati.
Tornando al quesito iniziale, è proprio la dipendenza dai mercati che ci espone al rischio di insolvenza. I mercati, infatti, tendono a essere compiacenti quando vi è abbondanza di liquidità, ma quando la politica monetaria cambia e diventa più restrittiva, come sta accadendo negli Stati Uniti e in Europa con la fine dei rispettivi quantitative easing, la reazione immediata è quella di recuperare liquidità cedendo le attività ritenute più rischiose in termini relativi. Seguendo questo spartito, la correzione già in corso dei prezzi della attività finanziarie è stata più intensa per i paesi emergenti e, purtroppo, per l’Italia. A questo punto, i residui compratori accettano di sottoscrivere il nostro debito solo se viene loro riconosciuto un premio al rischio in termini di maggiori rendimenti e questo è, per l’appunto, lo spread.
L'effetto dello spread sull'economia reale
Lo spread ha un effetto diretto sull’economia reale soprattutto attraverso le banche che, in quanto detentrici di titoli di Stato, vedono ridursi il valore del loro patrimonio (il valore dei titoli si muove in modo inverso a quello dei rendimenti) e quindi la loro capacità di erogare crediti. Se poi lo spread superasse un certo livello (per L’Italia si parla di una quota 400 – 450 punti base) le banche sarebbero tenute a loro volta a ricorrere al mercato per ricapitalizzarsi. Da questo punto in poi, in assenza di misure drastiche del governo per la riduzione del debito, la crisi rischierebbe di avvitarsi. Qualora le agenzie di rating portassero la loro valutazione del debito italian al di sotto dell’ “investment grade” (ovvero sotto BBB-), le nostre banche non potrebbero più rifinanziarsi presso la BCE e la crisi si trasformerebbe in una crisi di liquidità che ben presto arriverebbe fino ai bancomat.
Perché dobbiamo preoccuparci
Uno scenario di questo genere, che naturalmente nessuno si augura, ci porrebbe davanti a poche alternative. O ci rivolgiamo al fondo salva stati, istituito da Draghi dopo il famoso “whatever it takes” del 2012, il cui intervento è però condizionato all’assunzione di drastiche misure di risanamento finanziario supervisionate dalle autorità europee che ci metterebbero “sotto tutela”, oppure, se non ce la sentiamo, usciamo dalla UE e dall’euro, riacquistiamo la nostra autonomia monetaria e la possibilità di recuperare competitività svalutando e magari avviamo trattative per ristrutturare il debito. Quest’ultima è la strada dell’Argentina.
A giudizio di chi scrive, entrambi gli scenari comporterebbero conseguenze pesanti sul nostro tenore di vita, anche se il secondo sarebbe ben più disastroso, e quindi dovemmo cercare di non trovarci a dover scegliere fra queste tragiche opzioni. Purtroppo una parte crescente dell’opinione pubblica italiana pensa di esorcizzare il problema del debito pubblico rimuovendolo o banalizzandolo. Questo atteggiamento ha già procurato danni. Faremmo bene a riprenderci alla svelta le nostre responsabilità.