"Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la prese e colpì il servo del sommo sacerdote, recidendogli l'orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Ma Gesù disse a Pietro: 'Rimetti la spada nel fodero; non berrò forse il calice che il Padre mi ha dato?'". Questo episodio della Passione di Gesù sembra essersi ripetuto in questi giorni in Vaticano, dove a rifilare la spada nel fodero è stato il capo della sicurezza, allontanato per aver agito dimenticando il particolare contesto nel quale si trovava.
Domenico Giani ha presentato le dimissioni da comandante della Gendarmeria Pontificia e il Papa le ha accettate, a seguito della vicenda iniziata lo scorso 2 ottobre quando alcuni organi di stampa hanno pubblicato una Disposizione di servizio riservata, firmata dal comandante del Corpo riguardante gli effetti di alcune limitazioni amministrative disposte nei confronti di personale della Santa Sede.
“Tale pubblicazione è altamente lesiva sia della dignità delle persone coinvolte, sia della stessa immagine della Gendarmeria”, ha spiegato una nota vaticana. “Volendo garantire la giusta serenità per il proseguimento delle indagini coordinate dal Promotore di giustizia ed eseguite da personale del Corpo, non essendo emerso al momento l’autore materiale della divulgazione all’esterno della disposizione di servizio – riservata agli appartenenti al corpo della Gendarmeria e della Guardia Svizzera Pontificia – il comandante Giani, pur non avendo alcuna responsabilità soggettiva nella vicenda, ha rimesso il proprio mandato nelle mani del Santo Padre, in spirito di amore e fedeltà alla Chiesa ed al Successore di Pietro”.
Accanto al singolo episodio, che il Papa ha definito in privato un "peccato mortale", la gaffe di aver messo alla berlina alcuni dipendenti della Segreteria di Stato e dell’Aif, tra l’altro probabilmente innocenti, però il dottor Giani paga, secondo noi, anche il fatto di aver assecondato e favorito una deriva giudiziaria ben poco consona alla Chiesa Cattolica, il cui centro non può convivere con una centrale di intelligence né in un tribunale ad alta attenzione mediatica.
Il Vaticano uno stato come gli altri?
Non si tratta di lavare in casa i panni sporchi, come si diceva una volta, ma di agire con buon senso e magari con sensum ecclesiae. Vatileaks uno e due, il caso dell’appartamento di Bertone, ora la questione del prestito improprio chiesto allo IOR ma non erogato (e dunque da un punto di vista penale irrilevante) sono i capitoli di una telenovela che certo non ha portato acqua al mulino della Chiesa e dell’annuncio del Vangelo.
E Giani, che di quelle inchieste era stato uno dei protagonisti, paga dunque per una serie di scelte forse poco coerenti con la specifica realtà di uno Stato che non avrebbe dovuto riprodurre in piccolo le controverse condotte dei corpi di polizia dei grandi paesi, che vengono giustamente criticate dalla dottrina sociale.
Certo, la logica poliziesca dello "sbatti il mostro in prima pagina" che di evangelico non ha nulla e alla quale i processi vaticani si sono inevitabilmente prestati, ma anche altre scelte del comandante della Gendarmeria hanno contribuito a questo epilogo, a cominciare dall’approvvigionamento delle armi (comprese le famigerate pistole elettriche) e degli apparati per carpire le conversazioni telefoniche e ambientali. In qualche caso - a quanto ci risulta - anche di cardinali non proprio entusiasti del trattamento.
Anche le foto delle esercitazioni dei gendarmi con le forze speciali dell’antiterrorismo italiano certo non hanno giovato al comandante. Non è opportuno che chi annuncia il Vangelo della pace sia circondato da super poliziotti alla Rambo.
E invece anche in Vaticano da un annetto sono spuntati i mitra. I visitatori che entrano da Porta Sant’Anna, oltrepassando il confine italiano, non è difficile che scorgano qualche gendarme con giubbotto antiproiettile e fucili mitragliatori di ultima generazione spianati. “Evidentemente i tempi sono tali che anche nel piccolo Stato pontificio dove si predica la pace e si condannano i produttori di armi, sembra necessario ricorrere agli equipaggiamenti militari di un certo livello”, aveva commentato la vaticanista del Messaggero Franca Giansoldati, rivelando di aver raccolto lo sconcerto di “non pochi visitatori rimasti un po’ sorpresi davanti all’immagine di un gendarme munito di mitra, andando a chiedere informazioni nella guardiola”.
È coerente con lo specifico ministero del Pontefice tutta questa militarizzazione all’ombra del Cupolone, con l’acquisto di armamenti da parte del Vaticano – come pistole o mitra da assegnare in dotazione ai gendarmi – e con un gruppo scelto di membri della Gendameria vaticana che accanto alle pistole di ordinanza porterebbero anche i taser, gli strumenti che sono in grado di immobilizzare tramite una scarica elettrica ad alto voltaggio, per garantire, ha scritto Repubblica – una maggiore sicurezza del Papa, soprattutto nelle sue uscite pubbliche, quando è esposto al contatto con le grandi folle?
I pericolosi taser
L’utilizzo dei taser sarebbe consentito in Vaticano esclusivamente “a salvaguardia della vita”. “Non soltanto quella del Pontefice – ha scritto il quotidiano romano – ma di tutti coloro che vivono o semplicemente si trovano nello Stato pontificio, in tempi in cui non mancano minacce quotidiane di attacchi terroristici. Da tempo infatti le misure di sicurezza in Vaticano sono altissime, nonostante la necessità di conciliarle con le esigenze di culto da parte dei pellegrini”.
Sotto il comando di Giani, insomma, la Gendarmeria pontificia ha cercato di essere all’avanguardia anche in materie che nulla hanno a che vedere con gli obiettivi della Città del Vaticano, che dovrebbe essere un luogo dove prevale la logica del Vangelo e dove invece, a quanto pare, si è iniziato ad accettare l’uso della forza, sia pure - va da sè - a tutela dell'incolumità altrui.
"Chiedo che si smetta di lucrare sulle armi col rischio di scatenare guerre che, oltre ai morti e ai poveri, aumentano solo i fondi di pochi, fondi spesso impersonali e maggiori dei bilanci degli Stati che li ospitano, fondi che prosperano nel sangue innocente", scrive Papa Francesco nella prefazione al libro di Michele Zanzucchi (Città nuova) “Potere e denaro. La giustizia sociale secondo Bergoglio”.
L'armeria del Papa
È chiaro che per quanto simbolicamente significativa la spesa vaticana nel mercato delle armi è minima. Ma sono comunque soldi tolti ai poveri. Questo l'armamentario di cui si tratta: oltre a spade e alabarde (che fanno parte di fatto della divisa delle Guardie Svizzere), l’armeria del Papa presenta fucili di ogni epoca: i moschetti svizzeri T59, i modelli Vetterli del 1871, i fucili M1867, gi Hisso MP43-44 e gli Schmidt Rubin K31. Armi vintage, certo. Oggi si preferisce la Heckler & Koch MP7, arma per la difesa personale (molto diffusa anche tra i SEAL americani e tra le guardie del corpo dei politici) facile da usare e abbastanza compatta per essere nascosta.
La vecchia Dreyse 1907 è stata abbandonata dopo l’attentato a Giovanni Paolo II. Meglio la Sig P220, arma di servizio per la Guardia Svizzera, insieme alla Glock, marca austriaca di qualità. Per l’esercito del Papa, addirittura, vengono prodotti esemplari personalizzati, con incise le lettere AG (Ausrutung der Guarde) e lo stemma vaticano.
Infine armi più pesanti: fucili Sig SG550, in varie configurazioni, che vanno bene per combattimenti ravvicinati. E altri per scontri a distanza.
È possibile allora che dietro all’avvicendamento al comando della Gendarmeria Pontificia si possa nascondere in realtà una presa di distanza da scelte operative poco consone ad uno Stato come questo, e che la pubblicazione della Disposizione di servizio riservata sia stata quasi un pretesto.