Francesco & Evo. Storia di un'amicizia bolivariana rafforzata dal martirio di padre Espinal
Papa Francesco ha il dono di entrare facilmente in sintonia con i suoi interlocutori, come appare evidente ai giornalisti che lo accompagnano nei suoi viaggi. Ma in alcuni casi si coglie che nel momento di un incontro ufficiale, con protocolli e rituali rigidi, il Papa stabilisce un rapporto più profondo: nasce o si consolida un'amicizia.
È qualcosa che lo accomuna ai predecessori: in particolare a San Giovanni Paolo II che ebbe rapporti davvero di amicizia personale con Sandro Pertini e la coppia Carlo Azeglio e Franca Ciampi, così come Benedetto XVI con Giorgio Napolitano. Mentre la tragedia di Aldo Moro disvelò un radicato rapporto dello statista con monsignor Giovanni Battista Montini, poi Paolo VI. E tra tutti i capi di stato amici, quello che con il Papa sembra avere maggiore confidenza e più frequenti interlocuzioni (generalmente riservate) è Evo Morales, l'indio rieletto in questi giorni alla guida dello Stato Plurinazionale della Bolivia. Morales, per esempio, partecipa in modo riservato in Vaticano agli incontri del Papa con i movimenti popolari e più volte si è recato a sorpresa a Santa Marta in simili occasioni.
A legare i due c'è certamente la visione bolivariana di un mondo pluripolare ed il sogno di un'America Latina che riscopra la sua dignità e sia in grado di incidere, come testimonia il Sinodo sull'Amazzonia voluto da Francesco e che si chiude domani. Ma è anche il martirio di un confratello catalano di Bergoglio, per il quale Evo ha grande venerazione, ad offrire una chiave di lettura di questo rapporto.
Si deve alla sui generis personalità di Evo Morales un episodio particolare che destò scalpore in occasione del viaggio di Papa Francesco in Bolivia nel luglio 2015, quello del dono di un crocifisso formato con falce e martello, nel palazzo presidenziale di La Paz, un omaggio a Luis Espinal, gesuita e cineasta vicino alla Teologia della Liberazione ucciso nel 1980 da gruppi paramilitari per l’impegno a favore delle classi sociali più povere del paese.
Padre Espinal aveva creato quel crocifisso per sostenere l’impegno a favore delle lotte sociali, e la fedele riproduzione donata da Morales è un ringraziamento al Pontefice per la vicinanza al popolo boliviano. Papa Francesco si è recato a pregare sul luogo in cui fu torturato fino alla morte: “Ricordiamo qui un nostro fratello vittima di interessi, di quelli che lo hanno ucciso e che non credevano che lottava per la libertà della Bolivia, lui credeva nel Vangelo, e il Vangelo ha onorato”.
Il cammino di inclusione delle popolazioni indigene
E in effetti in più occasioni Francesco ha dichiarato appoggio totale al cammino di inclusione sociale della Bolivia, alla sua tutela delle nazionalità, idiomi, culture, al suo riconoscere i diritti delle minoranze al suo opporsi al dio denaro che scarta anziani e giovani. Per questo apparvero del tutto fuori luogo le reazioni polemiche a quel dono di Morales (Matteo Salvini addirittura si disse “schifato”), e alla fine suonò inadeguato il commento dell’allora portavoce vaticano Federico Lombardi, che sembrò voler giustificare qualcosa di sbagliato.
Ben diverso l’atteggiamento di Francesco che dichiarò di volersi portare a casa in Vaticano quel dono così particolare camminando per così dire sui passi di padre Luis Espinal Camps, gesuita originario della Catalogna, che la sera del 21 marzo 1980, stava uscendo dal cinema dove si era recato per recensire il film “Los desalmados”, quando venne caricato su un fuoristrada da degli sconosciuti: si trattava di un commando paramilitare, che lo rinchiuse nel macello di Achachichala, nei pressi di La Paz. All’alba del 22 marzo, il suo cadavere, con i segni delle numerose torture, fu ritrovato lungo la strada per Chacaltaya.
Due giorni dopo sarebbe accaduto a monsignor Oscar Arnulfo Romero, nel Salvador, di dare la vita per lo stesso motivo; oggi è venerato come San Romero d’America, martire. Per padre Espinal, invece, il riconoscimento ufficiale del martirio non è ancora giunto, anche se la sua memoria rimane viva. Portano il suo nome organizzazioni e gruppi culturali, mentre il governo boliviano ha deciso che il 22 marzo di ogni anno sia la giornata del cinema nazionale. Sì perchè la figura di questo gesuita, al quale Papa Francesco ha reso omaggio nella visita del 2015 in Bolivia, unisce in se due messaggi: quello del Vangelo della Liberazione e quello della comunicazione, tema di non scarso rilievo se si vuole diffondere quel messaggio.
“Io ero curioso, non sapevo che padre Luis Espinal, il gesuita torturato e ucciso laggiù, l’avesse ideato. Per me è stata una sorpresa. Si può qualificare questa scultura come un genere d’arte di protesta. In alcuni casi questo genere può essere offensivo. Ma padre Espinal e stato ucciso nel 1980 e la teologia della liberazione era allora l’analisi marxista della realtà. Poi padre Arrupe fermò questo connubio. Espinal era un entusiasta di questa analogia, un uomo speciale con tanta genialità. Per me non è stata una offesa. Ora quell’oggetto l’ho portato con me”, ha dichiarato Francesco.
Il gesuita catalano Espinal, scrittore, giornalista, critico cinematografico, aveva consacrato il suo talento a rivendicare i diritti degli ultimi. Con la parola e con la penna. Da quando era arrivato in Bolivia aveva iniziato a scolpire. Utilizzava materiale di scarto e lo lavorava per creare piccoli oggetti da regalare agli amici”. Anche questo era un messaggio per lui: dagli scarti – o dagli scartati direbbe Francesco – possono nascere opere d’arte.
Nella sua visita in Bolivia, del resto, Francesco si è dedicato a temi internazionali, partendo dalle parole dette ai cartoneros sulla necessità di cambiare del tutto il sistema vigente. “Perché quel mio intervento forte alla riunione dei movimenti popolari a Santa Cruz, in Bolivia? Io sono vicino a loro. Sono movimenti che hanno forza. Questa gente non si sente rappresentata dai sindacati perché dicono che sono diventati corporazioni e non lottano per i diritti dei più poveri. Allora la Chiesa non può essere indifferente, ha una dottrina sociale e dialoga bene con loro. Ma questo non significa che la Chiesa faccia un’opzione per la strada anarchica. No, non sono anarchici, sono lavoratori”.
“Assassinato per aiutare il popolo”
Quando alcuni lo esortavano a “non esporsi”, a non assumere posizioni troppo esplicite nei confronti dei dittatori che si alternavano al potere, padre Espina rispondeva: "Molti lasciano la Compagnia perché si innamorano. Devo forse lasciare anche io per essermi innamorato di questo popolo che mi onora con la sua fiducia?”. Gli amici hanno, dunque, inciso sulla sua tomba un’unica frase: “Assassinato per aiutare il popolo”. Un innocente rapito, torturato e ucciso con 17 colpi di pistola a El Alto, la notte tra il 21 e il 22 marzo di 35 anni fa.
Ad agire un gruppo di sgherri del dittatore Luis García Meza per cui la difesa appassionata degli ultimi e della libertà, portata avanti dal sacerdote-giornalista-critico cinematografico con la penna e la parola equivaleva alla più pericolosa minaccia. Perché Luis Espinal non sfidava il regime con le armi, bensì con il Vangelo. Era, dunque, necessario dargli una lezione esemplare perché scoraggiare quanti nella Chiesa volessero seguire il suo esempio. Il corpo massacrato di “Lucho” fu abbandonato al chilometro 8 della strada per Chacaltaya, dove ora c’è l’autostrada per La Paz.
Avvenire nell’occasione intervistò padre Xavier Albó, confratello e amico fraterno di Luis Espinal, ucciso per la sua difesa dei poveri e della democrazia. “La falce e il martello nel Crocifisso – ha spiegato il religioso -simboleggiavano, per lui, la necessità di dialogare sulle questioni di fondo. Sull’oppressione, la libertà, la dignità del lavoro. Andando oltre i comodi steccati dell’ideologia, in nome della quale i dittatori massacravano i cristiani accusandoli di essere marxisti”.
Padre Xavier ci tiene a precisarlo: “Lucho non è mai stato marxista. Aveva accese discussioni con i veri marxisti. Non ne comprendeva l’ateismo né i pregiudizi verso la fede. Per Espinal quest’ultima era il vero motore di liberazione e riscatto degli uomini e dei popoli”. A tanti, però – proprio come è accaduto ad altri uomini di Chiesa latinoamericani, dal beato Romero al gesuita Rutilio Grande – faceva comodo alimentare la confusione, per screditare quanti, nella Chiesa, si erano schierati evangelicamente al fianco dei poveri.
“Quel Crocifisso l’ha fatto nel suo ultimo anno di vita, ispirandosi al Cristo di Velázquez e aggiungendovi la falce e il martello. Pensi che, una volta, l’ho portato a una commemorazione per Lucho e mi si è rotta la falce. Ho dovuto incollarla. Meno male che quello per il Papa era nuovo”, ha confidato il gesuita.
Il sogno di Evo dello sbocco al mare
Al martire Espinal, ora, è bene che si raccomandino i sinceri democratici della Bolivia, attesa da un percorso in salita dopo la rielezione di Morales, che comunque ha fatto tripicare in 13 anni tutti gli indicatori economici di quello che resta tuttavia un paese povero. Carlos Mesa, che senza nessuna prova ha accusato il governo di frodi, ha dichiarato che non intende accettare il risultato.
Il timore è che come in Venezuela questi atteggiamenti irresponsabili dell’opposizione – espressione dell’oligarchia dei possidenti – possano saldarsi con gli interessi internazionali degli Stati Uniti che in Bolivia hanno favorito le sanguinarie giunte militari e i loro genocidi, nell’ultimo dei quali, nel 2003, l’ordine di sparare fu dato all’esercito e alla polizia da un governo in cui Mesa era vice presidente.
Chiamato a fare i conti con una Bolivia molto cambiata, soprattutto dal punto di vista economico e questo grazie alla validità delle politiche da lui messe in campo in questi 13 anni, Morales guida per un altro mandato il secondo Paese sudamericano per riserve di gas naturale, che però esporta solo in Argentina e Brasile, oltre a possedere le prime riserve mondiali di litio, minerale ricercatissimo dalle industrie automobilistiche, per il quale Evo vorrebbe sviluppare internamente tutto il ciclo produttivo, dall’estrazione del minerale alla produzione di batterie da vendere ai principali gruppi mondiali. Per questo la Bolivia desidera disporre di uno sbocco sul mare che le permetterebbe tra l’altro di far passare il gas attraverso delle pipeline, riducendo questa materia fossile allo stato liquido, per poi esportarla.
Esattamente un anno fa, però, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha preso posizione su questa antica controversia diplomatica dell’America Latina decidendo con 12 voti a favore e 3 contrari che il Cile non ha l’obbligo giuridico di avviare negoziati con la Bolivia per concederle l’accesso sovrano all’oceano Pacifico che il paese andino rivendica come legittimo.
Si tratta di una disputa che si trascina dal XIX secolo, risalente alla guerra del Pacifico (1879-1883), che vide il Cile opposto all’alleanza formata da Bolivia e Perù. Il Cile occupò militarmente il Corridoio di Atacama, appartenente alla Bolivia, e con esso il suo unico sbocco verso il mare. Nel 1904, un nuovo trattato rese ufficiale l’annessione. Ogni scontro diplomatico tra i due paesi riapre la vecchia ferita.
La Bolivia ritiene che il Cile abbia approfittato della sua posizione di forza dopo la vittoria della guerra per appropriarsi dei suoi territori e che, privando la Bolivia del tratto di costa che le apparteneva prima del conflitto, abbia recato un gravo danno all’economia del Paese.