Un dettaglio non troppo noto, relativo alle ultime ore di Paolo VI (domenica 6 agosto 1978, 40 anni fa), riguarda il testo che il Papa aveva preparato per l’Angelus di quel giorno. “Un discorso che, quasi come un inconsapevole lascito per il successore, Paolo VI - rivela il vaticanista Orazio La Rocca nel libro ‘L’anno dei tre papi’ edito in questi giorni dalla San Paolo - dedica ‘agli ultimi, a chi soffre, ai poveri, ai disoccupati e a quanti non si possono permettere nemmeno di trascorrere un breve periodo di vacanza’”.
“Il testo - commenta La Rocca - è incentrato sul significato della Festa della Trasfigurazione di Cristo sul Monte Tabor che la Chiesa cattolica celebra ogni 6 agosto, messa in relazione al destino del corpo mortale di ogni uomo: ‘Quel corpo che si trasfigura davanti agli occhi attoniti degli Apostoli - scrive Paolo VI - è il corpo di Cristo nostro fratello, ma è anche il nostro corpo chiamato alla gloria; quella luce che l’inonda è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore. Siamo chiamati a condividere tanta gloria perché siamo partecipi della natura divina. Una sorte incomparabile ci attende, se avremo fatto onore alla nostra vocazione cristiana’. Un ultimo pensiero va anche al ‘tempo corroborante delle vacanze’ e alle sofferenze di quanti non sono in grado nemmeno di godersi un breve periodo di riposo estivo.
Scrive il pontefice: ‘Pensiamo ai disoccupati, che non riescono a provvedere alle crescenti necessità dei loro cari con un lavoro adeguato alla loro preparazione e capacità; agli affamati, la cui schiera aumenta giornalmente in proporzioni paurose; e a tutti coloro, in generale, che stentano a trovare una sistemazione soddisfacente nella vita economica e sociale. Per tutte queste intenzioni si alzi fervorosa oggi la nostra preghiera mariana, che stimoli altresì ciascuno di noi a propositi di fraterna solidarietà’. Queste le ultime intenzioni di Paolo VI morente che, come un padre in procinto di partire per un viaggio pieno di incognite, si preoccupa della sorte dei suoi figli più fragili e indifesi. Il testo sarà diffuso dalle fonti vaticane e costituisce un documento di straordinaria importanza per la conoscenza del pensiero maturato da Paolo VI poco prima del traguardo finale”.
La denuncia dell’ingiustizia sociale che resta attuale anche oggi
“Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli”, aveva scritto Paolo VI nella “Populorum progressio”, una denuncia che resta del tutto attuale, e che oggi, pur incompreso da molti, anche nella Chiesa, ripete senza stancarsi il suo successore. Che di Paolo VI sta restituendo la memoria. L’anniversario della morte di Papa Montini mette dunque in rilievo gli arretramenti della Chiesa dopo il Concilio in campo sociale e teologico, e quelli della politica, sia a livello internazionale che nei singoli paesi, dopo una stagione che era stata carica di promesse, soprattutto in America Latina con l’ascesa di personaggi di grande calibro oggi in ritirata.
Se la corrente è questa, certamente Papa Francesco nuota in direzione opposta, per questo possiamo definirlo certamente giovanneo e forse soprattutto montiniano, mentre male si attaglierebbero su di lui – pur nel grande rispetto e considerazione che ha per i suoi immediati predecessori – gli aggettivi wojtyliano o ratzingeriano.
Appena concluso il Concilio, proprio una nuova presa di coscienza delle esigenze del messaggio evangelico imponeva alla Chiesa “di mettersi al servizio degli uomini” scriveva infatti il Pontefice all’inizio del testo, preparato grazie a collaborazioni diverse ma che risulta indiscutibilmente personale nell’ispirazione, in molti accenti e nello stesso linguaggio, appassionato e suggestivo”.
Un’enciclica, si potrebbe aggiungere, molto coraggiosa per l’epoca quando afferma che “l’urto tra le civiltà tradizionali e le novità portate dalla civiltà industriale ha un effetto dirompente sulle strutture, che non si adattano alle nuove condizioni”. Il documento, infatti, sottolinea il politologo e storico Roberto Pertici, coglie “il portato di dure lotte e di conflitti sociali, che, in questo nuovo stadio, potevano invece essere evitati. A questo scopo era necessario abbandonare l’assolutizzazione della proprietà privata tipica del capitalismo liberale, ribadendo la dottrina tradizionale dei padri della Chiesa e dei grandi teologi secondo cui il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento della utilità comune. Erano quindi possibili, in certi casi: politiche di espropriazione, il divieto dell’esportazione dei capitali, soprattutto il ricorso a esperienze di programmazione economica, perché “la sola iniziativa individuale e il semplice gioco della concorrenza non potrebbero assicurare il successo dello sviluppo”.
I movimenti popolari veri eredi di Paolo VI
Una ricetta in larga parte rimasta inattuata che Papa Francesco sta rilanciando soprattutto nei suoi importanti discorsi ai Movimenti Popolari, che della “Populorum progressio” rappresentano forse i più autentici eredi, impegnati come sono in più di 60 Paesi per esprimere, ha sintetizzato Francesco, “la stessa sete di giustizia, lo stesso grido: terra, casa e lavoro per tutti”.
Espressioni dei “cartoneros” nelle megalopoli latino americane, e dei “campesinos” sotto attacco dalle compagnie che oggi controllano i latifondi, cioè poveri e periferici, Bergoglio si è congratulato con loro perché continuano “ad aprire strade e lottare”, nonostante “forze potenti” possono “neutralizzare questo processo di maturazione di un cambiamento che sia in grado di spostare il primato del denaro”, questa “struttura ingiusta che collega tutte le esclusioni che voi soffrite”, e “mettere nuovamente al centro l’essere umano”. Il Papa ha ricordato il loro lavoro e le loro rivendicazioni, tra cui “la felicità di “vivere bene”, “la vita buona” e “non quell’ideale egoista che ingannevolmente inverte le parole e propone la ‘bella vita’”.
La “Populorum progressio”, ha affermato il cardinale honduregno Oscar Rodriguez Maradiaga, oggi al timone del Consiglio dei 9 cardinali che collaborano alla Riforma della Curia Romana, “per la prima volta parlava della necessità della giustizia sociale per un autentico sviluppo. E quando la Chiesa parla in favore dei poveri c’è sempre qualcuno che le rimprovera di voler fare politica e di entrare in campi che non sono suoi. Riguardo all’accusa di essere marxista, era e rimane ridicola. L’enciclica riprendeva questa celebre frase di Sant’Ambrogio: “Non è del tuo avere che fai dono al povero. Tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti e non solamente ai ricchi”.
E aggiungeva: “Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario”. Un concetto ripreso dalla costituzione conciliare “Gaudium et spes”, quindi niente di rivoluzionario. Come non era affatto rivoluzionario l’avvertimento del rischio che il profitto venisse considerato il “motore essenziale del progresso economico” e che la concorrenza fosse venerata come la “legge suprema”.
Paolo VI a tale proposito parlava di “liberalismo senza freno”. E Francesco martella quasi ogni giorno lo strapotere del “Dio denaro”. Per Bergoglio, come ha detto il 5 novembre 2016 ai Movimenti popolari, ricevendoli per la seconda volta in Vaticano, il denaro governa “con la frusta della paura”, che è “un buon affare per i mercanti di morte” perché “ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e alla fine ci rende crudeli”. Mentre, ha concluso con parole che riecheggiano Montini, “il colonialismo ideologico globalizzante cerca di imporre ricette sovraculturali che non rispettano l’identità dei popoli”.