Piccoli e grandi problemi nelle temperie della storia talvolta sembrano sommarsi, creando un clima pesante fatto di incomprensioni e delusioni. Lo stanno sperimentando sulla loro pelle i fedeli orientali della Chiesa Cattolica, che in molti paesi del Medio Oriente (in particolare in Siria, a Gaza e in Iraq) si sentono stretti nella morsa dell’Islam fondamentalista e delle guerre che ha generato nell’area). Sempre più spesso per questo i cristiani orientali intraprendono la via amara dell’esilio, spopolando la Terra Santa e gli altri luoghi dove il cristianesimo ha iniziato la sua formidabile espansione, per spostarsi nei territori della Chiesa latina (Italia compresa), dove però faticano non poco a mantenere le proprie tradizioni liturgiche (anche per mancanza di clero orientale, composto in gran parte da preti sposati che nelle diocesi latine, specialmente da noi e in Polonia) sono malvisti .
Ma feriti si sentono anche i fedeli e il clero della più grande (quanto a dimensione) delle chiese di rito orientali in comunione con Roma: quella dell’Ucraina, largamente maggioritaria nel suo territorio. Il conflitto nel Donbas essi lo avvertono come un attacco alla integrità della loro patria, faticosamente riconquistata dopo la dittature sovietica. Ma la Santa Sede deve guardare, con la sua azione diplomatica, alla causa complessiva della pace e non può mettere Putin sul banco degli imputati, in quanto per molti versi oggi il Cremlino certamente svolge un’azione positiva a livello internazionale. Il segretario di Stato Pietro Parolin, che la prossima settimana sarà a Mosca per incontrare al Cremlino il patriarca Kirill ma anche il presidente Putin, si accinge quindi a una difficile missione nella quale non potrà tacere le ragioni degli “Uniati” ma nemmeno potrà gridarle, come essi vorrebbero. Così si sentono - ma solo in parte ciò è giustificato - sacrificati sull’altare delle real politik al pari ad esempio dei cattolici clandestini della Cina e come questi ultimi faticano a comprendere i cambiamenti positivi che invece deriveranno alla causa della pace dal superamento voluto da Francesco delle antiche barricate contrapposte.
La dura intervista di Hilarion sul problema degli Uniati in Ucraina
Alla vigilia della partenza un’intervista al Sole 24 Ore del metropolita Hilarion Alfeev, vescovo di Volokolamsk e responsabile delle relazioni internazionali del Patriarcato di Ortodosso Russo, mostra come il gioco delle parti obblighi ad esempio l’omologo russo di Parolin, al ruolo di rigido difensore degli interessi della sua chiesa (anche contro l’evidenza dei fatti). “La questione più delicata nelle relazioni - spiega l’alto rappresentante degli ortodossi russi - tra le nostre Chiese è l’’unia’, che da secoli danneggia pesantemente i rapporti tra ortodossi e cattolici. E ricordando che nella dichiarazione comune di Papa Francesco e del Patriarca Kirill firmata a Cuba in occasione dello storico incontro del febbraio 2016, “si sottolinea che ‘il metodo dell’uniatismo del passato, inteso come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua Chiesa, non è un modo che permette di ristabilire l’unità', Hilarion non menziona affatto le grandi sofferenze e ingiustizie subite dai cattolici orientali dell’Ucraina a partire dal Sinodo di Leopoli, attraverso il quale Stalin fece confluire la chiesa bizantina legata a Roma in quella autocefala ortodossa, costringendo i fedeli al Papa alla clandestinità e in molti casi ai campi di prigionia e al martirio. E come se tutto fosse iniziato con il referendum per l’autodeterminazione della Crimea voluto dalla componente russa e ritenuto illegale dal governo di Kiev, afferma: “Oggi è possibile osservare le conseguenze devastanti dell’unia per l’Ortodossia nelle azioni provocatorie e aggressive della Chiesa greco-cattolica ucraina, cresciute di intensità dopo i fatti di Kiev del febbraio 2014″. “Negli ultimi anni – denuncia Hilarion – abbiamo ascoltato dalla dirigenza uniate una gran quantità di dichiarazioni politicizzate e aggressive, offensive nei confronti della Chiesa ortodossa russa e del suo Rappresentante”.
Secondo il responsabile delle relazioni internazionali del patriarcato russo, “assistiamo a un’espansione del proselitismo, che si manifesta nella formazione di nuove strutture canoniche della Chiesa greco-cattolica ucraina nelle terre tradizionalmente ortodosse nel Sud e nell’Est dell’Ucraina”. E infine, la ciliegina sulla torta: “nella dichiarazione comune tra il Papa e il Patriarca bisogna sottolineare l’invito a un’attiva pacificazione e alla solidarietà sociale in Ucraina. Siamo grati alla Santa Sede per l’appoggio alla Chiesa ortodossa ucraina che si è espresso nella condanna dei progetti di legge n. 4128 e 4511, in esame alla Verkhovna Rada (il Parlamento ucraino, ndr). La loro adozione conferirebbe base legale all’esproprio delle chiese della Chiesa ortodossa ucraina, e alla sua discriminazione. La discussione su questi disegni di legge è stata sospesa, ma non ci sono garanzie che non venga ripresa in una nuova stagione politica”.
Nelle scorse settimane, Hilarion, che è anche un apprezzato musicista, è stato indiscusso protagonista di un appuntamento di grande prestigio nel panorama musicale e delle relazioni interreligiose internazionali, guidando al Festival di Ravello l’Orchestra Filarmonica Salernitana “Giuseppe Verdi” in due Stabat Mater: quello di Pergolesi e quello da lui composto. Ma la poliedricità e ricchezza della sua personalità non gli impediscono di esercitare con una certa durezza il suo ruolo diplomatico. Anche se questo significa non tenere in alcun conto la verità e la giustizia.
Le tensioni a Piana degli Albanesi
Da uno scenario delicato e complesso come quello dell’Ucraina, all’infuocata landa siciliana di Piana degli Albanesi, dove vive una delle comunità più antiche di rito orientale, quella degli Arbereshe.
Anche qui i cattolici di rito bizantino di origine albanese (eredi degli esuli che arrivarono in Italia tra il XV e il XVIII secolo, in seguito alla morte dell'eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Scanderbeg e alla progressiva conquista dell'Albania e, in generale, di tutti i territori dell'Impero Bizantino da parte dei turchi-ottomani) si sentono incompresi e vittime di ingiustizie. Come sempre, anche in questo caso in effetti la ragione non sta da una parte soltanto.
“Beatissimo Padre - scrive a Papa Francesco un gruppo di fedeli che ha trovato ospitalità sul sito Stilium Curiae del vaticanista Marco Tosatti - dopo un biennio di continui ricorsi presso la Congregazione delle Chiese Orientali e dopo l’umiliazione del silenzio di essa, e dopo aver interpellato altri dicasteri della Santa Sede, senza avere mai ricevuto alcuna risposta, ricorriamo a Vostra Santità quale ultima istanza e quale Vescovo di Roma, che presiede nella carità a tutte le Chiese.
Noi crediamo che la Chiesa Orientale in Piana degli Albanesi alla luce della Orientalium Ecclesiarum del Vaticano II, del magistero ordinario dei Sommi Pontefici (Beato Paolo VI, San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI) meriti rispetto e sia trattata quale membro vitale dell’Una Santa Cattolica ed Apostolica Chiesa.
La testimonianza di fedeltà lunga ben cinque secoli nata dal martirio in terra d’Albania è un segno dell’amore all’unità della Chiesa nella sua diversità. L’odierno Eparca, da Vostra Santità scelto, rappresenta una ferita ecclesiologica ed ecumenica. Vostra Santità giustamente abbraccia e ricerca l’unità con i patriarchi ortodossi; il nostro Eparca purtroppo dà segni di disprezzare, ed umilia in Vostro Nome, la Tradizione della Chiesa Orientale. La cattolicità quindi, è messa in pericolo dai cattolici stessi. Un ritorno alla prassi orientale ortodossa, Santità, ci sembra essere l’unico mezzo per avere il giusto rispetto ed il diritto all’esistenza. È per questo, santità, perché non vediamo nessun’altra soluzione, dopo due anni in cui abbiamo cercato con tutti i mezzi un dialogo che ci è stato negato, che chiediamo un Vostro intervento. Ci affidiamo a Voi, Santità, sicuri che saprete trovare la forma e il modo per ottenere che la nostra comunità possa tornare a un modus vivendi compatibile con la Tradizione orientale, che si è perpetuata fino ad oggi, e che purtroppo le azioni del vescovo Gallaro, coscienti ed incoscienti, stanno mettendo in pericolo gravissimo. Santità, ci aiuti a restare cattolici!”.
Firmato: “i fedeli italo albanesi di Piana degli Albanesi, Palazzo Adriano, Mezzojuso, Contessa Entellina, eredi di padre Giorgio Guzzetta, i fedeli della concattedrale della Martorana di Palermo”.
Qualche mese fa un centinaio di fedeli, che temono la “latinizzazione” dell’Eparchia di rito bizantino, aveva addirittura manifestato sotto la sede episcopale. L’indice era puntato contro le novità portate dal vescovo Giorgio Demetrio Gallaro, arrivato dagli Stati Uniti (come buona parte dell’attuale gerarchia orientale): i pontificali in italiano, la modifica di alcune parti del rito e l’assenza di confronto. I malumori avevano avuto inizio ad agosto dell’anno scorso, dopo la decisione del vescovo di traferire alcuni preti all’interno dell’Eparchia di Piana degli Albanesi che comprende anche Contessa Entellina, Mezzojuso, Palazzo Adriano e Santa Cristina Gela. E ingloba la cattedrale palermitana di San Nicolò dei Greci alla Martorana.
“La causa di tutte queste proteste - replica da parte sua monsignor Gallaro - è in quei sacerdoti, che per non muoversi dai loro luoghi, hanno strumentalizzato dei fedeli in buona fede per esasperarli in nome di un pretesa identità orientale. Peccato – fa notare l’eparca – che siano gli stessi preti che da anni hanno introdotto pratiche devozionali di un latinismo che neppure i latini accettano”.
Il riferimento è all’introduzione del festeggiamenti per Padre Pio e vari pellegrinaggi. L’eparca venuto dagli Stati Uniti, ma originario di Pozzallo, spiega cosa ha reso necessari i trasferimenti: “Non è pensabile che i parroci rimangano tutta la vita nella stessa parrocchia. Al mio arrivo ho radunato tutto il clero chiedendo un po’ di tempo per conoscere e poi decidere su alcuni spostamenti necessari”. All’origine del nuovo piano della diocesi, spiega il vescovo, ci sono soprattutto esigenze di “trasparenza e chiarezza nella gestione economica”. “La nostra è un’Eparchia ricca dove si è sperperato denaro a causa di una gestione confusa e alla quale abbiamo voluto mettere fine”. A chi lo accusa poi di “latinizzare Piana” monsignor Gallaro risponde che “l’identità dell’Eparchia è composita (ne fanno parte anche fedeli di rito latino, ndr) ed il vescovo ha la piena autorità di usare indifferentemente i due riti, così come recita la bolla di San Giovanni XXIII. Sono per il rispetto della tradizione, ma bisogna adattarsi al presente. In tal senso ho trovato in alcuni ambienti una sorta di chiusura etnica ed, in tema di catechismo, una certa carenza documentale di materiale in lingua italiana, nonostante le indicazioni date dal Sinodo del 2010”. Di qui la scelta di tradurre il catechismo delle chiese orientali. “E’ utile ricordare - conclude Gallaro - che l’uso dell’italiano nella letture dell’epistole del Vangelo era stato introdotto a Piana prima del mio arrivo e non c’è in atto nessuna riforma liturgica. La traduzione di alcune preghiere dall’albanese risponde all’esigenza di farsi comprendere dalle migliaia di persone che partecipano ai nostri riti della Settimana Santa”.
Gli 800 mila cattolici orientali che in Italia non vogliono farsi latinizzare
Argomenti quelli del presule italo-americano che non fanno una grinza, ma certo non tranquillizzano gli animi dei cattolici orientali che in Sicilia si vedono in qualche modo spinti alla completa latinizzazione e denunciano anche “l'abbandono spirituale nel quale si trovano i nuovi immigrati ortodossi residenti anche in nostri paesi arbereshe privi di clero ortodosso". Il riferimento è in particolare alla comunità greco-cattolica rumena presente in Italia (oltre mezzo milione di immigrati) che qualche anno fa si era vista respingere dalla Cei la richiesta di farsi seguire in Italia da clero uxorato messo a disposizione dall'episcopato rumeno perché non esisterebbe "la 'giusta e ragionevole causa' che giustifichi la concessione della dispensa" dalla legge ecclesiastica per la quale i preti sposati delle Chiese orientali non possono esercitare al di fuori del territorio storico della loro Chiesa. "La convenienza di tutelare il celibato ecclesiastico e di prevenire il possibile sconcerto nei fedeli per l'accrescersi di presenza sacerdotali uxorate prevale infatti - aveva spiegato in una lettera ai vescovi rumeni l'allora presidente della Cei, Angelo Bagnasco - sulla pur legittima esigenza di garantire ai fedeli cattolici di rito orientale l'esercizio del culto da parte di ministri che parlino la loro lingua e provengano dai loro stessi Paesi".
Recentemente un paio di sacerdoti italiani di rito orientale, stanchi dei contrasti, sono passati a chiese ortodosse, seguiti da gruppi di fedeli, mentre vive una profonda crisi vocazionale e disciplinare l'Abbazia Greca di San Nilo, cioè il monastero di Grottaferrata, la terza realtà orientale canonicamente eretta in Italia (con Piana degli albanesi e l'eparchia di Lungro in Calabria). Più in generale la situazione delle comunità di tradizione orientale è molto preoccupante anche perché ci sono oggi nel nostro Paese circa 800 mila cattolici di rito greco: albanesi, mediorientali, indiani, rumeni e ucraini, i cui bisogni spirituali si sommano a quelli delle poche migliaia di eredi delle popolazioni albanesi nelle quali la lunga attesa per vedere riconosciuti i propri diritti di appartenenti al rito bizantino ha lasciato cicatrici che ancora – come si vede – sono sanguinanti. E che occorre far guarire perché la Chiesa per essere davvero cattolica ha bisogno anche di loro, degli orientali.