La violenza c’è e occorre vederla. E i femminicidi non sono un’invenzione: né della sinistra, né di qualche romanziere particolarmente truculento. L’anno scorso in Italia ce ne sono stati 117: li ha contati la Casa delle Donne di Bologna, perché nel nostro Paese non esiste una fonte istituzionale di rilevamento.
Si tratta di un fenomeno molto “democratico”, che non fa differenze geografiche (nel 2016 il 53,3% delle donne uccise per mano di un uomo era del Nord, il 26,7% del Sud e il 20% del Centro), tra popolazione istruita e non, tra giovani e vecchi; nulla ha a che vedere con l’uguaglianza che dovrebbe essere il fondamento e la meta della democrazia, invece, l’origine di questi assassini, che risiede in una società dispari, dove per usare un eufemismo i rapporti tra i generi sono sbilanciati e i diritti umani calpestati.
La violenza c’è e occorre parlarne. Ma bisogna farlo nel modo corretto, per non alimentare stereotipi e pregiudizi che sono alla base della cultura patriarcale dominante. Per questo stamattina a Venezia è stato presentato il Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini. Perché le parole hanno un peso e il linguaggio può veicolare rispetto o discriminazione.
C’è qualcosa che si può fare a parte assistere impotenti a questo fiume di sangue? Ne abbiamo parlato con Patrizia Romito, docente di Psicologia sociale all’Università di Trieste, autrice tra l’altro di “Un silenzio assordante. La violenza occultata su donne e minori” (Angeli, Milano), una delle massime esperte italiane sul tema, una vita dedicata alle questioni di genere.
Professoressa Romito, di violenza sulle donne si parla di solito in due occasioni: il 25 novembre e in seguito a un femminicidio. Le donne ammazzate sono state tante. Possiamo dire che oltre al numero di vittime sono cresciute anche l’attenzione e la sensibilità su questo tema?
“Sicuramente attenzione e sensibilità sono cresciute: anche lo spazio che viene dato sui media alle donne uccise era raro trovarlo vent’anni fa; vent’anni fa emergevano i casi misteriosi o particolarmente trucidi, ma una donna uccisa dal marito non credo avrebbe attirato l’attenzione a questo livello. Diciamo che è aumentata l’attenzione anche in maniera concreta perché corsi di formazione davvero per quasi tutti — operatori sociosanitari, forze dell’ordine, giornalisti, anche insegnanti — sono frequenti: non sono sufficienti, ma sono frequenti. Forse solo gli operatori giudiziari si sono tenuti un po’ fuori. Sono cose che quindici anni fa erano impensabili. C’è indubbiamente maggiore attenzione e consapevolezza, tuttavia:
1. non c’è nessuna indicazione che la violenza contro le donne sia diminuita, e questo è un dato fondamentale, perché è lì che vogliamo arrivare;
2. nelle risposte degli operatori, che sono spesso più informati e consapevoli, restano dei nodi spaventosi, per cui è difficile essere soddisfatti. Certo, son dei nodi che forse non apparivano vent’anni fa. Vent’anni fa era difficile che una donna con figli lasciasse il marito e se ne andasse: oggi lo fa proprio perché è cresciuta la consapevolezza, la sensibilità sociale, i messaggi che arrivano alle donne le invitano a ribellarsi, a non subire violenza, ma quando questo avviene le donne sono fortemente penalizzate, se ci sono dei figli poi è un percorso difficilissimo, perché nel nostro Paese resta forte l’idea che il padre abbia diritto ad avere i figli anche se è un uomo violento.
Il tema è non solo affrontare l’emergenza, ma creare le condizioni perché una donna che reagisce alla violenza possa sopravvivere e avere un futuro.
“Lì impatta la crisi economica: uno studio inglese mostra che c’era stata una lieve flessione dei casi di violenza contro le donne, che però sono nuovamente aumentati attorno al 2008, quando è iniziata la crisi economica: questo rende più difficile l’uscita dalla violenza e forse peggiora anche il comportamento maschile, penso ad esempio a casi in cui lui perde il lavoro e lei lo conserva e si scombinano i ruoli tradizionali".
Com’è cambiato lo scenario da quando ha iniziato a occuparsi di violenza contro le donne e in particolare negli ultimi 10 anni?
"Molto e molto poco. Partendo dagli elementi positivi, sul piano legislativo l’Italia si è allineata ad altri Paesi nonché alla normativa sovranazionale con vari strumenti, tra i quali:
- gli ordini di protezione civili (l. 154 del 4 aprile 2001)
- la legge di contrasto alle mutilazioni genitali femminili (l. 7 del 9 gennaio 2006)
- la legge sugli atti persecutori o stalking (l. 38 del 23 aprile 2009)
- la legge di recepimento della Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori, contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale (l. 172 del 1° ottobre 2012)
- il diritto al congedo retribuito per un massimo di tre mesi per le donne inserite in percorsi di protezione dalla violenza di genere (D. Lgs. n.80 del 15 giugno 2015, art. 24)
- la legge recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto alla violenza di genere (…) c.d. legge sul femminicidio (l. 119 del 15 ottobre 2013)
- la Convenzione di Istanbul (la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (2011) ratificata con l. 77 del 27 giugno 2013) e il successivo Piano straordinario del Governo contro la violenza di genere (2015), con i quali il nostro Paese si è dotato di uno schema di riferimento e di un quadro legislativo che permette di leggere la violenza come un fatto strutturale, elemento di una situazione più generale di discriminazione e subordinazione delle donne e di sviluppare misure di prevenzione e di contrasto in un’ottica globale e multilivello
- il Decreto legislativo che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime del reato (D. Lgs. n. 212 del 15 dicembre 2015 di Attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012).
Ma nonostante tanti anni di lotte, di attivismo femminista, di modifiche legislative, di informazione e sensibilizzazione, le donne continuano ad essere uccise".
La violenza è in aumento o siamo semplicemente di fronte all’emersione di un fenomeno?
“I dati italiani, con un trend simile anche in altri Paesi, ci dicono che negli ultimi anni sono diminuiti gli omicidi in generale (in base a dati forniti dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale dal 2008 al 2013 si passa da 614 a 501), mentre la proporzione di vittime di sesso femminile è aumentata dal 24% al 35%; detto questo anche i numeri delle donne uccise sono numeri per difetto, perché ci sono donne scomparse, donne che si suicidano, donne che muoiono per problemi di salute causate da una vita di violenze, e non rientrano nel numero dei femminicidi".
Rimane poi il problema del rilevamento delle vittime di violenza.
“Non abbiamo dati ufficiali: gli unici dati a disposizione sono quelli raccolti dalla Casa delle Donne di Bologna e dall’Eurispes, un’agenzia privata che collabora con il Governo. Non esiste un sistema di rilevamento degli omicidi che tenga conto del rapporto aggressore-vittima".
C’è almeno maggiore consapevolezza, se non nella popolazione negli operatori che si trovano a maneggiare quotidianamente questa violenza?
"È aumentata un po’ dappertutto tranne a mio avviso nella magistratura, ma a questo proposito vorrei sentire qualche magistrato e chiedergli se conferma questa mia impressione. Sicuramente gli altri professionisti fanno una formazione quasi sempre multidisciplinare che contempla, come previsto dalla Convenzione di Istanbul e dalle Linee guida dell’OMS, la presenza dei centri antiviolenza, perché una formazione sulla violenza contro le donne senza i centri antiviolenza è monca e pericolosa. La mia impressione è che i magistrati facciano una formazione tutta interna senza un’esposizione a questa fonte di conoscenza assolutamente fondamentale. E poi c’è da dire che il potere che ha un magistrato è superiore al potere di altri professionisti: è lui che decide se quel bambino dovrà andare in visita dal padre violento: certo, lo farà sulla base della perizia psicologica e del rapporto degli assistenti sociali, ma alla fine la decisione sarà sua".
Spesso s’invocano pene più severe, ma è bene ricordare che la nostra è una buona legislazione: al di là del fatto che, se non si aggrediscono le cause strutturali della violenza, difficilmente si potrà pensare di risolvere questo fenomeno, cos’è che non funziona? Cos’è che a un certo punto s’inceppa?
"Continua a non funzionare il fatto che, a parte nelle operatrici dei centri antiviolenza, nella maggior parte degli operatori di tutte le altre categorie professionali resta la confusione tra ciò che è conflitto e ciò che è violenza, questo è il problema principale, per cui vengono prese decisioni che potrebbero andar bene in caso di conflitti, ma sono vietate dalla Convenzione di Istanbul in caso di violenza: un esempio è la mediazione familiare, che in caso di violenza è vietata dalla Convenzione di Istanbul; il problema è che la violenza non viene riconosciuta come tale: ci sono delle situazioni in cui il giudice impone la mediazione in casi di violenza manifesta, eclatante".
Siamo di fronte a un problema di formazione e di conoscenza della legge. Ma dove sta la causa originaria, nella cultura patriarcale, che tende a mettere sempre e comunque la famiglia al primo posto?
"Nella nostra cultura l’uomo viene prima di tutto. D’altronde quello che gli uomini violenti pretendono oggi era legittimo fino al 1975 e molti continuano a pensare che sia giusto così".
Sapendo che la coperta è corta, da dove è a suo avviso più urgente cominciare?
"Investire di più sulla prevenzione, che vuol dire formazione: questa è la prima delle tre indicazioni della Convenzione di Istanbul (assieme a tutelare e contrastare), ma purtroppo finora non ci sono segnali forti che la società italiana sia pronta a fare questi investimenti. Un’indagine del 2013 di We World — “Quanto costa il silenzio?” — ha stimato in circa 16,7 miliardi di euro annui il costo totale economico e sociale della violenza contro le donne nel nostro Paese, mentre la stima di contrasto e prevenzione, sotto forma di investimenti in capitale umano, è di 6,3 milioni di euro".
E poi serve la politica, che dev’essere il traino, non la scorta di queste scelte; servono le istituzioni, che devono essere capaci di riconoscere i saperi delle donne e di metterli al centro, promuovendo una formazione capace di ribaltare la prospettiva attuale.
In questo campo la prof. Romito, coinvolgendo l’Università di Trieste e il territorio, si è spesa e continua a spendersi moltissimo: da tempi non sospetti sono stati attivati numerosi corsi sulla violenza contro le donne in vari corsi di laurea, è stata istituita una borsa di dottorato (iniziativa finora unica in Italia), è stato aperto e implementato un sito dedicato agli adolescenti (www.unitsit/noallaviolenza), è stato curato e messo a disposizione di tutti il manuale “La violenza su donne e minori. Una guida per chi lavora sul campo”, che ha vinto il Premio Biagi per la Qualità della Comunicazione e lo scorso maggio è stato presentato in Senato alla presenza della ministra Fedeli, ora sta per partire il corso di perfezionamento universitario di primo livello “Violenza di genere e femminicidio: prevenzione, contrasto e sostegno alle vittime”, che inizierà il 12 gennaio 2018 e si propone di formare professionisti in grado di rispondere alle sfide poste dalla violenza contro le donne. Inoltre a metà ottobre è stata responsabile scientifica del convegno promosso a Rimini dalla Erickson: un evento a cui hanno partecipato oltre 400 persone, il 90% delle quali donne; erano soprattutto operatrici e volontarie dei Centri antiviolenza, psicologhe, assistenti sociali, educatrici, poi – in numero inferiore – insegnanti, professioniste dell’ambito sanitario, avvocate…
Eppure ancora non basta. Non smettiamo di parlarne, non spegniamo i riflettori il giorno dopo il 25 novembre: forse questa può essere una piccola parte della soluzione.