Dopo essere stata lasciata in sonno per un lungo periodo, l’attenzione dell’opinione pubblica sulle vicende siriane è stata recentemente ridestata a seguito dell’intervento turco contro i curdi. Un’efficace campagna mediatica ha fatto sì che da destra a sinistra tutti abbiano preso a cuore il destino del popolo curdo, il quale ha combattuto - anche per noi, si sottolinea - contro l’Isis e ora si trova sotto attacco di un malvagio tiranno.
Purtroppo le cose non sono così lineari come questa rappresentazione un po’ manichea dei fatti vorrebbe farci credere. Chiariamo subito che non ci sono buoni e cattivi in questa guerra che dura ormai da oltre otto anni e nella quale sono risultati coinvolti numerosi Paesi: Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Turchia, Iran, Libano e Israele. Sono inoltre accorsi in appoggio alle varie fazioni in lotta “volontari” provenienti dall’Europa, dal Medio Oriente e dall’Asia.
Così tanti attori con interessi contrastanti hanno reso la Siria un campo di battaglia in cui si sono scaricate le tensioni e le competizioni geopolitiche che attraversano l’area, nella totale noncuranza delle terribili conseguenze per il popolo siriano. Nessuno dei paesi citati può dirsi innocente rispetto agli orrori di questa guerra che è stata combattuta non solo sul terreno bellico, ma anche su quello dell’informazione, con un uso massivo e selettivo dei social network volto a manipolare l’opinione pubblica.
Le colpe della Turchia datano da ben prima dell’intervento contro i curdi. Inseguendo un suo sogno imperiale nell’area, essa fu la prima ad intervenire in Siria nel 2011, pochi mesi dopo le prime manifestazioni antigovernative, armando e fornendo supporto logistico ai militanti islamici di matrice sunnita, compreso il gruppo Al Nusra patrocinato da Al Qaeda, i quali poi confluirono nel cosiddetto Esercito Siriano Libero (FSA).
La radicalizzazione settaria della guerra richiamò poi jihadisti da tutto il mondo, in una sorta di internazionale salafita. Successe così che decine di migliaia di foreign fighters (gli stessi di cui oggi ci preoccupa il ritorno) entrarono in Siria, passando tranquillamente per il confine turco. La cosa era sotto gli occhi di tutti, ma la narrativa dominante fu che si trattava di “moderate rebels” che combattevano contro un dittatore sanguinario. E’ singolare che solo oggi, quando lo stesso Esercito Siriano Libero ha affiancato i turchi nell’operazione contro i curdi, i media si siano accorti che esso è composto soprattutto da jihadisti.
La rappresentazione dei militanti islamici come combattenti per la libertà costituì l’inizio di una campagna mediatica di disinformazione che si è sviluppata sino ai giorni nostri. Le stesse tecniche di condizionamento dell’opinione pubblica erano state utilizzate con successo in Libia, quando la rivolta contro Gheddafi fu descritta come un movimento di popolo per la democrazia. Sappiamo come è finita.
Dopo che Gheddafi venne trucidato nell’ottobre del 2011, fu soprattutto Hillary Clinton, allora Segretario di Stato, a sollecitare con successo un riluttante Obama a cogliere il “momentum” per ridisegnare la mappa del Medio Oriente. L’obiettivo era quello di rimuovere la presenza e quindi l’influenza nell’area della Russia, che possedeva un’importante base navale a Tartus. Ma forse ancor più importante era l’obiettivo di assecondare e condividere gli interessi e i progetti geopolitici del potente e influente alleato israeliano.
Israele vedeva infatti con favore la dissoluzione del confinante stato siriano in una condizione non difforme da quella libica, non tanto perché lo considerasse una minaccia diretta, quanto piuttosto per i suoi stretti legami con l’Iran, che consentivano a quest’ultimo di estendere la propria influenza sulla regione. Esso non ebbe pertanto remore ad appoggiare i militanti islamici che si battevano contro Assad, fornendo loro supporto logistico e di intelligence e soprattutto una copertura mediatica di favore.
Alla fine del 2012 gli Stati Uniti ruppero gli indugi e, in accordo coi Paesi del Golfo e la Turchia, lanciarono il programma, all’epoca segreto, “Timber Sycamore” con cui venivano forniti armi, denaro e addestramento ai ribelli antigovernativi. Obama non era inizialmente convinto dell’iniziativa, ma poi diede il suo assenso sotto le pressioni di Israele e della Clinton. Al programma aderirono anche Francia e Regno Unito, i quali facevano leva sul loro passato coloniale nella regione per precostituirsi un posto a tavola nel banchetto postbellico.
Molte delle armi provenivano dagli arsenali libici rimasti incustoditi dopo la caduta di Gheddafi e vi sono importanti indizi che portano a ritenere che l’assasssinio dell’ambasciatore USA in Libia nel settembre 2012 sia legato al coinvolgimento degli americani in questo traffico di armi. Da parte sua, il governo siriano cominciò a ricevere aiuti dall’Iran, dalla Russia e dagli Hezbollah libanesi.
Lo scenario cambiò radicalmente con la nascita dell’Isis. Supportato finanziariamente dai sauditi che intendevano contenere l’influenza della Turchia nell’area, l’ascesa in Siria e Iraq di questo gruppo ancor più radicale di Al Qaeda sembrò inizialmente inarrestabile. Sorprendente fu in particolare la conquista senza colpo ferire di Mosul, seconda città dell’Iraq, dove il gruppo si rifornì del denaro e dell’oro depositati nella sede della banca centrale e, soprattutto, di un’enorme quantità di armi incredibilmente abbandonate dall’esercito regolare in fuga senza combattere.
Le armi pesanti e l’ingente materiale bellico acquisiti consentirono all’Isis di conquistare rapidamente tutto l’est della Siria, sino ad allora rimasto poco coinvolto, per poi riversarsi a ovest dell’Eufrate, occupando fra l’altro Palmira e le periferie di Aleppo. Impegnate severamente su più fronti, le truppe governative erano sul punto di collassare quando la Russia accolse la richiesta di Assad e intervenne direttamente nel conflitto, ovviamente anche per salvaguardare i propri interessi strategici nella regione.
L’intervento dei russi, in particolare della loro aviazione, cambiò il corso della guerra. La riconquista di Aleppo da parte dei governativi segnò il punto di svolta cui seguì la progressiva perdita da parte dei ribelli di gran parte dei territori in precedenza occupati. I successi di Assad e la preoccupazione che con il supporto russo egli fosse in grado di riconquistare tutti i territori occupati dall’Isis indussero gli Stati Uniti a intervenire più direttamente. Alla ricerca di soldati da mandare all’assalto dell’Isis sotto la copertura dei bombardieri, gli Usa, dopo aver preso in considerazione, per poi scartarla, l’ipotesi perorata dalla Turchia di appoggiarsi all’Esercito Libero Siriano, ripiegarono sui curdi.
Sino a quel momento, i curdi avevano tenuto una posizione ambigua nel conflitto; avversari delle milizie islamiste, essi cercarono comunque di mantenere per quanto possibile uno stato di non belligeranza con esse. Formalmente, riconoscevano il governo di Damasco, ma nei fatti riuscirono ad approfittare della guerra per allargare la propria area di insediamento storico e per acquisire maggiore autonomia. Nel 2017 essi, con una popolazione inferiore al milione e pari a circa il 6% di quella complessiva siriana, presidiavano una vasta regione nel nord della Siria che si estendeva lungo quasi tutto il confine con la Turchia.
Fu allora che la Turchia, che come è noto ha un contenzioso secolare con i curdi, decise un’operazione militare nell’area del nord ovest della Siria occupata dai curdi, del tutto simile a quella avviata pochi giorni fa nel nord est. I curdi furono rapidamente battuti e costretti a riparare in una ridotta a nord di Aleppo. La Turchia occupa ancora oggi quell’area, ma stranamente quell’operazione non ebbe particolare risalto sui media e tutti coloro che oggi si stracciano le vesti per le sorti dei curdi rimasero silenti.
Quando poi gli Stati Uniti proposero ai curdi di partecipare all’iniziativa contro l’Isis, questi vi colsero un’opportunità per la costituzione di uno stato indipendente, di dimensioni pari al 30% della Siria che si sarebbe esteso dal confine con la Turchia a quello con l’Iraq e che avrebbe beneficiato delle rendite petrolifere dei pozzi concentrati in quell’area. Un progetto simile era peraltro stato abortito dai loro cugini iracheni, con i quali, per inciso, intrattengono pessimi rapporti.
Nel 2014, infatti, i curdi iracheni, che dopo l’invasione americana del 2003 già godevano di un’ampia autonomia, approfittarono della rotta dell’esercito di Baghdad attaccato dall’Isis e ampliarono la loro zona di storico insediamento, occupando diverse città, come Kirkuk, abitate da arabi, ma ricche di pozzi petroliferi.
Al contrario di quanto ci è stato raccontato, quindi, essi non solo non contrastarono l’avanzata dell’Isis, ma di fatto addivennero a una sorta di patto di desistenza e di spartizione del territorio iracheno con esso. Un analogo atteggiamento opportunistico è stato tenuto, come abbiamo visto, dai curdi siriani.
Quando poi nel 2017 l’esercito dell’Iraq, con il supporto dell’aviazione americana, riuscì a respingere l’avanzata dell’Isis, il Kurdistan si affrettò a proporre un referendum per la costituzione di uno stato indipendente che avrebbe compreso anche le ricche province occupate nel 2014. L’iniziativa del referendum fu bocciata da tutti, compresi gli Usa, e non ebbe seguito. L’unico Paese che sostenne il diritto dei curdi iracheni ad avere un proprio Stato indipendente fu Israele che non a caso è stato anche il più forte sostenitore dell’indipendenza dei curdi siriani.
Ora, pur con tutta la buona volontà, è difficile credere che Israele abbia sinceramente a cuore il diritto del popolo curdo a uno stato indipendente mentre lo nega al popolo palestinese di cui occupa i territori. In realtà, l’obiettivo di Israele era quello di creare, con questo nuovo Stato “amico”, una zona cuscinetto in grado di interrompere il corridoio territoriale che dall’Iran, passando per l’Iraq sciita e la Siria, giunge fino al Libano e quindi ai propri confini.
Alle stesse finalità va ricondotto il forte appoggio di Israele alla costituzione di uno stato curdo nel territori siriani confinanti con l’Iraq. Per chiudere il cerchio, la minore risonanza nei media del primo intervento turco contro i curdi trova infine una spiegazione nel fatto che esso si svolgeva in una zona di scarso interesse strategico per Stati Uniti e Israele.
D’altra parte, quando Trump ha deciso il ritiro delle (poche) truppe statunitensi dalla Siria, era consapevole che ciò avrebbe causato le ire del potente alleato israeliano. Egli si è pertanto affrettato a rassicurarlo, garantendo il mantenimento dell’importante base militare costruita ad Al Tanf, nello strategico punto di confine della Siria con la Giordania e l’Iraq, allo scopo di presidiare i pozzi petroliferi (“we secured the oil” ha recentemente twittato Trump) e tutto il territorio circostante come appunto chiedeva Israele. Dopo queste rassicurazioni, i curdi sono divenuti meno importanti, come ciascuno può constatare sui media.
Un’ultima notazione. Durante gli scontri fra i curdi e l’esercito turco sono ricomparsi, dopo lungo silenzio, i famosi “caschi bianchi”, i quali in una serie di tweets hanno denunciato dei presunti massacri compiuti dai curdi ai danni della popolazione civile. Stranamente, questa volta la loro denuncia non ha avuto alcuna eco sui media. In realtà, l’epopea dei caschi bianchi è stata forse la più grossa mistificazione informativa che ha accompagnato la guerra civile siriana.
Vi sono innumerevoli documenti che testimoniano la loro contiguità con Al Qaeda e che svelano che i famosi salvataggi di civili colpiti dai bombardamenti dell’esercito siriano erano in realtà delle messe in scena, peraltro di modesta fattura. Non a caso i curdi li avevano messi al bando dai propri territori.
Eppure, siamo stati inondati dai filmati che mostravano questi salvataggi e addirittura le loro gesta sono divenute oggetto di un film. Senza vergogna erano anche stati proposti per il Nobel della pace. Invece, ora che Al Qaeda ha appoggiato la Turchia nella sua iniziativa contro i curdi, sono stati silenziati. Ma i nostalgici non si devono preoccupare. L’esercito siriano si sta infatti preparando per riconquistare la zona di Idlib che costituisce l’ultimo bastione occupato da Al Qaeda e altre milizie islamiche. In vista di questa battaglia, i caschi bianchi tornano di nuovo buoni e quindi Trump ha deciso di versare 500 milioni alla loro organizzazione. Prepariamoci alla nuova campagna mediatica sulla prossima crisi umanitaria ad Idlib.