Matteo Salvini ha una strategia. Non spara nel mucchio, non la spara grossa per il gusto di spararla grossa. Ha una strategia mediatica e comunicativa coerente, in cui tanti sembrano cascare – la sinistra, i 5 Stelle, i media – forse perché la sottovalutano, o non la comprendono.
Quel che vale per la fenomenologia dei tweet di Trump analizzati dal linguista George Lakoff vale anche per Salvini. C’entra il concetto di framing, cioè il modo in cui le persone “inquadrano il mondo” attraverso cornici cognitive, interpretando i fatti, le esperienze, i fenomeni politici.
Ci sono quattro pilastri della strategia mediatica salviniana che, attraverso il framing, aiutano a capire come Salvini è diventato Salvini, e come riesce a dominare l’agenda mediatica.
Il primo è lo Zeitgeist, lo spirito del tempo caro a Hegel e teorizzato nel perimetro della politica italiana da Mario Sechi. Salvini, e su un altro piano il Movimento 5 Stelle, rappresentano il pezzo di offerta politica oggi percepito più in linea con la trasversale e radicale richiesta di discontinuità e di protezione. I dati pubblicati in Una nuova Italia confermano che gli elettori hanno premiato 5 Stelle e Lega perché occupavano, nello spazio politico, i quadranti dell’anti-sistema, del sovranismo, e dell’intervento dello Stato sul welfare, tendenza comune ai movimenti della destra europea, come emerge dagli studi di Matteo Cavallaro. Salvini è ben consapevole di avere lo Zeitgeist dalla sua parte. “Il popolo contro l’establishment” (chissà fino a quando, ora che è al governo). Usa dunque lo Zeitgeist per garantirsi ampio spazio su quei media tradizionali che proprio lo Zeitgeist mette in discussione.
Il secondo strumento, collegato, è l’appello alla comunità. Salvini vanta una comunità di seguaci – followers digitali, con i suoi 2,7 milioni di like su Facebook, ma non solo – motivata e compatta. Diversa ad esempio dalla comunità che sosteneva con vigoroso entusiasmo Matteo Renzi. Che era eterogenea, non fideistica. Che vedeva in Renzi un mezzo attraverso il quale dar voce a una generazione e cambiare la società italiana. Salvini per i salviniani è, invece, un “Capitano” al quale dare carta bianca, al quale affidarsi.
Questa comunità è oggi un vantaggio competitivo, in epoca di generale de-mobilitazione e sfarinamento della partecipazione politica. Tanto più se è una comunità attivabile sia online sia offline, come testimonia il fatto che Salvini ha preso parte a circa 250 iniziative sul territorio negli ultimi cinque mesi. Da Nord a Sud. Salvini sa di poter contare su questa sua “comunità salviniana” come fonte di legittimazione e validazione della sua leadership, anche nel rapporto con i media.
La terza chiave è la polarizzazione. Proprio perché viviamo tempi nei quali meno persone partecipano in prima linea alla vita dei partiti, polarizzare paga. Bisogna individuare nemici, tangibili o simbolici, con i quali stabilire una dinamica oppositiva. Per Salvini è stato Alfano quand’era al Viminale, Renzi, la Fornero, è ora Saviano, lo spread, Macron, la nave della Ong, il richiedente asilo che (post su Facebook del 26 febbraio) lancia sassi sulle auto ma anche il magistrato (di sinistra?) che dopo pochi mesi lo mette in libertà. Recepire la comunicazione salviniana vuol dire recepire una costante dinamica oppositiva che polarizza lo scontro e individua antagonisti. Sull’immigrazione, su tutte, che è la vera radice del consenso per Salvini, un fenomeno da mantenere in prima pagina perché più è saliente nel dibattito più questo premia chi è percepito come più in grado di dare risposte.
La conseguenza della polarizzazione è che, siccome la (social) media logic premia gli stilemi dello “scontro”, del “duello”, della “lite”, Salvini polarizza perché sa che polarizzare gli consentirà di scatenare nicchie, di eccitare tifosi e attivisti di una e dell’altra parte, e così di dominare l’agenda.
L’ultimo grimaldello cognitivo è la “rivoluzione del buonsenso”. Un apparente ossimoro che ha dato il nome alla campagna di posizionamento lanciata dalla Lega a fine 2017. Chi pensa che Salvini sia solo toni incendiari e punti esclamativi sui social trascura un pezzo importante del suo posizionamento comunicativo. Non solo perché ha impresso alla Lega un profondo rebranding (via il verde e la Padania, dentro il blu e i cartelli trumpiani).
Ma anche perché, nella sua retorica, “il voto per la Lega è un voto di normalità”, “è giusto riportare un po’ di normalità in Italia”. Enunciazioni pacate, di buonsenso, che celano però tracce di un sottotesto nativista. Nell’immaginario della “normalità”, della “tranquillità” del “Paese normale” insidiato da minacce esterne e comportamenti devianti interni si nota un tratto comune a molta della destra europea. Il Paese del buonsenso salviniano, in fondo, richiama all’Italia che c’era prima (prima degli immigrati, prima dell’Euro?). Come il “great again” dell’America cristallizzata nello slogan elettorale di Donald Trump.