H&M, il colosso del fast fashion svedese, è stato citato in giudizio per marketing ingannevole e per aver utilizzato dati falsi e fuorvianti. Già nel 2019 la Consumer Authority norvegese aveva denunciato H&M per possibili violazioni alla normativa sulla pubblicità ingannevole. Sotto accusa era finita la collezione “H&M conscious”.
Lo scorso Novembre avevo già dettagliatamente scritto sul “greenwashing”, cercando di evidenziarne la pericolosità e spiegando il corretto significato del termine, spesso frainteso e ritenuto referente a qualcosa di “green”.
La commissione per l’ambiente della UE il 30 Marzo 2022 per la prima volta ha dichiarato guerra senza frontiere al “fast Fashion” e soprattutto al “greenwashing”, proponendo norme che lo vietano e aggiornamenti delle regole a tutela dei consumatori e della transizione verde. La UE in quella occasione ha posto come centrale l diritto alla corretta informazione dei consumatori e il contrasto a dichiarazioni ambientali vaghe "senza impegni chiari, oggettivi e verificabili".
La Consumer Authority norvegese e la dichiarazione di guerra della UE quasi appaiono poca cosa oggi che per il colosso del fast fashion svedese è in corso un un'azione legale collettiva, depositata il 22 luglio scorso in un tribunale federale di New York, che indaga sulla veridicità delle informazioni sulla sostenibilità comunicate dal colosso svedese.
La causa prende le mosse da un report di Giugno del sito Quartz che affermava che più della metà delle scorecard (profili introdotti sui singoli prodotti con un cartellino verde) descriveva i prodotti come migliori per l'ambiente di quanto non fossero in realtà. In alcuni casi le scorecard di H&M avrebbero fornito informazioni sulla sostenibilità di un prodotto completamente fasulle.
H&M ha rimosso prontamente le scorecard in seguito al rapporto. Un altro report successivo, pubblicato dal magazine Just Style, ha evidenziato come le scorecard utilizzavano solo le medie dell'impatto ambientale dei tipi di tessuto, piuttosto che fornire il pieno impatto ambientale della produzione e vendita di un particolare capo di abbigliamento finito. Sotto accusa anche la dichiarazione di trasformare i vecchi capi in nuovi o di escludere l’invio in discarica
L’azione collettiva contro H&M, avviata da Chelsea Commodore, residente nello stato di New York, ritiene che, tra le altre cose, l'etichettatura di sostenibilità, il marketing e la pubblicità di H&M siano “progettati” volutamente per fuorviare e confondere i consumatori attraverso l'uso di falsi profili di sostenibilità ambientale (scorecard) con i punteggi assegnati ad alcuni prodotti solamente in base all’impatto ambientale dei materiali utilizzati per realizzarli.
Oltre all’utilizzo di questi profili, l’accusa sostiene che H&M diffonda false dichiarazioni sulla natura sostenibile dei suoi prodotti, inclusa la capacità, tanto pubblicizzata in tutto il mondo, di chiudere il ciclo (economia circolare) per impedire che i capi già utilizzati finiscano in discarica attraverso il suo programma di raccolta negli store e riciclaggio.
Tra le accuse prodotte la Commodore evidenzia l'illusione creata da H&M "che i vecchi vestiti vengano trasformati in nuovi indumenti, o che i vestiti non finiscano in una discarica", narrazione fuorviante, considerato che "tecnologie per il riciclaggio sono ancora rare e poco disponibili per il commercio su larga scala, trattandosi di procedimenti ancora molto costosi, lenti e in sperimentazione". Tuttavia, se anche fossero utilizzati, sostiene la Commodore, "H&M impiegherebbe più di un decennio per riciclare ciò che vende nel giro di pochi giorni”.
“La causa si basa sulla mancata maggiore sostenibilità dei prodotti di H&M, commercializzati come sostenibili”, dice la querelante. Lei e altri acquirenti hanno “subito un danno economico”, poiché “non avrebbero acquistato i prodotti o pagato tanto se fossero stati riportati i veri dati”. I consumatori sarebbero stati quindi indotti a pagare di più per capi apparentemente più sostenibili ma che in realtà nonlo erano.
La crisi climatica globale è uno dei temi che ci preoccupa e ci vede tutti impegnati nella ricerca di possibili soluzioni, sebbene la battaglia contro il climate change sia molto difficile: occorrono infatti scelte drastiche e urgenti.
Ne sono consapevoli in particolare i consumatori delle generazioni Y e Z, che desiderano sempre più allineare le scelte di acquisti ai propri valori; i marchi rispondono a questa richiesta assumendo impegni di sostenibilità, fissando obiettivi climatici e cercando di ridurre al minimo il proprio impatto ambientale .
Non esistono aziende, soprattutto se produttrici di fast fashion, che siano al 100% sostenibili
Con l'aumento dell'interesse dei consumatori per tutti i temi legati all’impronta delle aziende del tessile-moda è però anche aumentato il greenwashing con messaggi, nel migliore dei casi, fuorvianti in quanto ingannano il pubblico e rendono vana la realtà degli sforzi e dei piccoli faticosi passi di sostenibilità dei marchi che si stanno realmente impegnando.
La Commodore ha infatti ragione quando sostiene che non esistono aziende, soprattutto se produttrici di fast fashion, che siano al 100% sostenibili, né tantomeno in grado ancora di chiudere il cerchio ma dobbiamo ricordare, come molte volte ho già scritto, che il percorso è lungo e non facile e che aver intrapreso un cammino con obiettivi chiari e condivisi è comunque un inizio.
Ovviamente il greenwashing non agevola questo percorso e al contrario lo rallenta, confondendo e scoraggiando proprio i consumatori a cui si chiede di imparare a comprare meno e spendere di più per capi di maggior qualità. Interessante ricordare che sulla scia della causa H&M, il watchdog britannico, l'Autorità per la concorrenza e i mercati (CMA), ha dichiarato il 29 luglio che avrebbe indagato su Asos, Boohoo e altri marchi di moda in merito alle campagne di marketing sulla sostenibilità dei loro prodotti.
Il caso delle accuse di H&M evidenzia uno dei principali problemi della sostenibilità della moda: la facile ambiguità e vaghezza. L’ambiguità viene favorita da alcuni criteri di rating troppo vaghi e poco intellegibili o dall’evidenzazione di certi dati positivi mentre molti altri, quelli negativi, vengono accuratamente nascosti.
Senza una definizione universalmente condivisa di sostenibilità o punti di riferimento chiari con certificazioni ed etichette trasparenti, complete, accurate e facilmente leggibili, i marchi rischiano di cadere nel greenwashing, seppur ben intenzionati, considerata la complessità e le molte sfaccettature del concetto di sostenibilità.
I marchi dovrebbero riconsiderare il marketing e la comunicazione tenendo presente tale complessità e anche la futura possibile conformità normativa e utilizzarla come meccanismo per guidare la propria strategia di sostenibilità . Dovrebbero inoltre focalizzarsi nella realizzazione di una catena di fornitura end-to-end più controllata. Avere un solido sistema di pianificazione e di merchandising garantirebbe che venga prodotta solo la giusta quantità di prodotti, che essa vada nei posti giusti ai consumatori giusti così da produrre meno rifiuti in anticipo.