Utilizziamo spessissimo gli anglicismi, ossia parole prese in prestito dalla lingua inglese e diamo per scontato che siano termini acquisiti, appartenenti al linguaggio collettivo. L’egemonia anglosassone ha fatto sì inoltre, che apparirebbe un vezzo anacronistico sostituire queste parole con le corrispettive italiane. Mi sono accorta parlando, per esempio, con i miei giovani studenti o semplicemente con un’amica assai colta ma poco interessata alla moda, che i termini “fast fashion ” o “slow fashion” sono sconosciuti ai più.
Eppure “Fast fashion” in particolare, è diventato, un termine con una forte caratterizzazione culturale, quasi uno slogan tra gli addetti ai lavori. Mi sono quindi decisa a far luce su queste espressioni, magari dando anche qualche cenno storico.
Solo trent’anni fa acquistare un capo di abbigliamento era considerato un evento da programmare con ponderazione. I consumatori, le famiglie erano solite pianificare gli acquisti in determinati periodi dell'anno o per occasioni speciali. I criteri di scelta erano legati soprattutto alla funzionalità, alla qualità e quindi anche alla possibilità di sfruttare a lungo il capo acquistato. Le cose sono cambiate negli anni '90, quando lo shopping è diventato molto più economico, dando l’illusione a tutti di poter indossare i capi alla moda. L’acquisto è diventato così meno impegnativo e quindi meno meditato.
Potremmo definire, in quest’ottica, il fast fashion un fenomeno culturale, poiché ha incoraggiato un consumo compulsivo al quale corrisponde una sovrabbondanza produttiva e una riqualificazione “usa e getta” dei capi di abbigliamento.
Con il termine “fast fashion”, moda veloce, si intende quindi la produzione di capi accessibili e alla moda, con proposte continuamente nuove, “ispirate” direttamente alle sfilate che dettano le nuove tendenze di stagione e dietro alle quali c’è un lungo, duro e meticoloso lavoro di molti. Il fast fashion nasce quindi per soddisfare il desiderio della gente di acquistare un capo “modaiolo” ma ad un prezzo molto accessibile; questi capi costano talmente poco che si possono acquistare e buttare via senza molti scrupoli.
Il Fast Fashion, nasce negli anni '80 ed esplode dal 2000 quando le aziende di moda iniziano a produrre un numero sempre maggiore di collezioni annuali a costi bassissimi, passando dalla realizzazione di 2 collezioni l'anno, legate alla stagionalità e programmate con largo anticipo (Primavera/Estate e Autunno/Inverno), ad un numero spropositato di piccole collezioni (flash), fino ad una a settimana, sempre aggiornate nei temi, nei modelli e nei colori.
Il fast fashion è stato reso possibile da un’innovazione totale nella gestione della catena di fornitura (tessuti ed accessori), da un radicale cambiamento nel sistema produttivo e da nuove logiche di selezione (non creazione) e confezione del capo di abbigliamento. Questi prodotti che vengono realizzati copiando i capi delle sfilate, rispondono rapidamente alle richieste dei consumatori, talvolta bruciando e rendendo obsoleti i capi delle stesse passerelle.
La moda veloce quindi consente ai consumatori di acquistare abbigliamento sempre alla moda a un prezzo molto accessibile e questo grazie ad un sistema produttivo concentrato su pochi capi per volta (“flash”), realizzati con tessuti e tecniche di confezione scadenti. Sono inoltre prodotti direttamente “al buio”, cioè non a fronte degli ordini dei clienti, per velocizzare al massimo il processo produttivo.
Il pret-a-porter, cioè il tradizionale sistema produttivo sviluppatosi dagli anni ’50 in poi, detto anche “programmato”, viene progettato e realizzato un anno e mezzo prima con due collezioni l’anno, presentato attraverso sfilate (alla stampa e ai clienti, cioè i venditori al dettaglio), o in showroom o semplicemente attraverso una rete di rappresentanza e poi, prodotto in base agli ordini ricevuti.
Appare così evidente che la sostanziale differenza tra il “programmato” cioè il pret a porter e il “pronto moda” cioè il fast fashion, è proprio nel sistema produttivo e nelle sue tempistiche. Anche i brand, specializzati nel pret-a-porter programmato, hanno dovuto adeguarsi a queste nuove logiche per soddisfare la clientela sempre più esigente, producendo piccoli “flash” “in stagione” per rinnovare le vetrine, senza però abbassare i propri standard qualitativi.
Il fast fashion inoltre si è rivelato un vantaggio anche per i rivenditori poiché la costante introduzione di nuovi prodotti invoglia i clienti a frequentare i negozi più spesso alla ricerca delle ultime novità.
I principali leader del settore del fast fashion sono la spagnola Zara, fondata da Ortega nel 1975 a La Coruña, la svedese H&M, costituita nel 1947 con il nome di Hennes ("per lei" in svedese), la giapponese UNIQLO fondata negli anni ‘80, le americane Gap, con sede a San Francisco dal 1969, e Forever 21, a Los Angeles sin dal 1984, l’irlandese Primark, sorta a Dublino nel 1969, e l’inglese Topshop, costituita nel 1964.
Tutte queste aziende hanno aperto negozi per la vendita diretta in Europa e non solo, tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila. Il New York Times utilizzò l’espressione “fast fashion” per la prima volta alla fine del 1989, quando Zara aprì un negozio a New York. Secondo l’articolo bastavano 15 giorni perché un capo di abbigliamento di Zara fosse prodotto e andasse in vendita in negozio.
Moltissime altre aziende di media e piccola dimensione sono sorte su questo modello produttivo dando vita a distretti tessili specializzati ben noti e con caratteristiche precise e riconoscibili. Per esempio, per citarne alcuni, il modaiolo distretto parigino, il distretto pratese, con la sua Chinatown, il ben organizzato e molto economico distretto di Nola (NA) e quello sorto a Bologna, tendenzialmente modaiolo come quello parigino.
Il “fast fashion” è considerato un processo di democratizzazione della moda, un fenomeno che ha permesso a tutti di vestirsi seguendo le ultime tendenze. Tuttavia, i ritmi di produzione di queste aziende sono sostenibili solo producendo in paesi dove il costo del lavoro è molto basso e dov’è quindi facile che i diritti dei lavoratori non siano rispettati. Senza contare i materiali utilizzati, estremamente economici e di bassa qualità.
Il momento di rottura, per cui non è stato più possibile ignorare le implicazioni di questo sistema produttivo, è stato il crollo del Rana Plaza di Savar in Bangladesh il 23 Aprile 2013. Considerato il più grande incidente legato all'abbigliamento nella storia, ha avuto un ruolo fondamentale nel porre maggiore attenzione sulla sicurezza nel settore del fast fashion. Al Rana Plaza sono morti oltre 1.100 lavoratori tessili e rimasti feriti oltre 2.200. L'incidente per la prima volta ci ha obbligato a interrogarci su chi produce i vestiti che indossiamo ogni giorno e a quale prezzo in termini di condizioni di lavoro.
“Ma come fa a costare così poco?” Quante volte ce lo siamo domandati, piacevolmente sorpresi dal bassissimo prezzo di alcuni capi e passando velocemente alla cassa senza chiederci altro.
In definitiva, il fast fashion ha innovato e stravolto il sistema produttivo rendendo accessibile a tutti la possibilità di comprare molti capi diversi puntando sulla quantità e non sulla qualità, ma nello stesso tempo ha creato un problema di sovrabbondanza produttiva e della sua sostenibilità.
“Aziende come Zara producono 20 mila nuovi modelli ogni anno” secondo quanto riportato da slowfashion. La moda usa e getta sta riempiendo il pianeta di rifiuti tessili: buttiamo l’811% di vestiti in più rispetto al 1960. Solo nel 2015 sono finiti in discarica 1.630 tonnellate di vestiti. Si stima che ogni persona, ogni anno, consumi 34 abiti e getti via 14 chili di vestiario (secondo un report stilato dalle Nazioni Unite). Oggi le vendite sono circa il 400 per cento in più rispetto a vent’anni fa. (secondo dati elaborati dalla società di consulenza McKinsey).
Gli aspetti critici del sistema del fast fashion sono quindi legati non solo allo sfruttamento della manodopera (spesso donne e bambini), ma anche allo smaltimento degli eccessi di produzione e dei capi, poco utilizzati, destinati alle discariche perché non riciclabili né smaltibili. Senza contare, il fatto che i processi produttivi richiedono grandi quantità di acqua, energia, pesticidi e sostanze chimiche dannose per l’ambiente.
È necessario fare dunque un passo indietro; occorre cercare nuove dimensioni e bisogna riscoprire il valore di quei prodotti ben progettati, fatti con materiali di qualità, prodotti per un ciclo di vita più lungo e tracciabili in ogni passaggio. Il consumatore deve riscoprire il vantaggio di acquistare meno, scegliendo capi più costosi ma più duraturi, magari artigianali frutto di una moda lenta ma più sostenibile e consapevole. Capi prodotti con modalità “Slow fashion”.
Nel 2007 nasce, per contrapporsi al fast fashion e con la speranza di ridisegnare il futuro del sistema moda, il movimento Slow fashion (moda lenta), locuzione coniata da Kate Fletcher per indicare un diverso approccio al consumo e al coinvolgimento del consumatore per un ritorno ad acquisti duraturi, ben selezionati e ponderati. Secondo Kate Fletcher i prodotti devono essere realizzati da manodopera pagata equamente e con materiali di qualità ed ecosostenibili.
La 'moda lenta', si riferisce alla creazione, produzione e consumo di moda con processi alternativi rispetto ai sistemi oggi dominanti.
Non si tratta affatto di una trasformazione semplice da effettuare. Un’inversione di marcia così radicale necessita di molto tempo e di un’attenta educazione al cambiamento. Non è facile all’improvviso smettere di comprare in modo assiduo e poi non tutti possono permettersi di scegliere e di puntare a prodotti di maggiore qualità. Io, comunque, ho cercato di far chiarezza.
Per i più curiosi vorrei suggerire casomai qualche lettura e anche un prezioso docufilm di Safia Minney “Slave to fashion”; “The true cost” un docufilm di Andrew Morgan per Netflix che svela il vero volto del fast fashion