Per quale ragione, in questi giorni, quasi tutti i miei amici che hanno Netflix stanno trovando il tempo per guardarsi (o riguardarsi) "I due Papi"? Me lo chiedevo quando, singhiozzando per l'emozione, scorrevano i titoli di coda mentre il Papa Emerito (Anthony Hopkins) e Papa Francesco (Jonathan Pryce) guardavano alla TV Argentina - Germania, la finale del campionato mondiale di calcio 2014, mangiando patatine, bevendo birra e punzecchiandosi con grande educazione.
Mescolando fatti veri a una trama di pura invenzione il film racconta in un arco narrativo che sostanzialmente è quello delle quarantotto ore vaticane, la straordinaria amicizia tra due uomini che tutto hanno di diverso tranne la fede e la voglia di essere amici. Lo spunto narrativo vero sono le due dimissioni: la prima, notissima, è quella di Ratzinger; la seconda, che nel film trascende le reali proporzioni storiche, è quella che Bergoglio diede da Cardinale di Buenos Aires allo scadere dei 75 anni, per dovere di ufficio.
Io di motivi per guardarlo ne ho trovati almeno tre: e voglio prescindere da quelli ovvi quali la splendida recitazione, la fotografia, i costumi, la sceneggiatura e così via, ingredienti essenziali e che sono al top.
Il terzo motivo è che lo sceneggiatore, Anthony McCarten e il regista Fernando Meirelles, entrambi lontani dalla fede e critici di Papa Benedetto, raccontano una storia più forte della loro preclusione e che scappa loro dalle mani per evolvere in modo caldo, umano e commovente. Appare evidente che la realtà dei personaggi acquista una sua propria forza autonoma e tracima dagli angusti argini nei quali poteva essere rinchiusa dall’ideologia. Gli autori hanno amato i loro personaggi più delle loro idee pregresse sui medesimi: e questa è una cosa grande.
Il secondo motivo è il definitivo scacco matto alla finta idea di verità, racchiusa nell'espressione "è una storia vera" (o, ancora peggio, "tratto da una storia vera"). Niente di più falso della storia tra Polifemo ed Ulisse eppure niente di più vero che quella vicenda per raccontare la cecità di una civiltà che si sforza di costringere gli sguardi dentro la prospettiva di un solo occhio. E così Hopkins e Pryce raccontano una meravigliosa storia inventata in cui emerge sovrano l'assioma per cui la verità non è una nozione ma un incontro.
E infine il primo, quello che per me è il combustibile di tutto, ovvero il carisma dell'amicizia. In genere, chi vuole avere come piatto forte del racconto un'amicizia sceglie personaggi sconosciuti, vicende minime, scenari quotidiani: perché l'amicizia è il più invisibile degli amori e il rischio di farlo sovrastare da altri sapori è fortissimo. Qui invece accade il miracolo.
È come se McCarten e Meirelles raccontassero l'amicizia di un paio di giorni tra Messi e Ronaldo, facendo dimenticare allo spettatore che sono calciatori. Ratzinger e Bergoglio hanno di mira la loro amicizia prima e al di sopra delle loro convinzioni su cosa siano conservazione o progresso, omosessualità e comunione ai divorziati risposati, dittatura o libertà, reggia vaticana o baraccopoli sudamericana, collusione coi preti pedofili e giudizio universale. E ciò avviene grazie al desiderio che brucia entrambi, di ascoltare la voce di Dio. Due uomini che secondo l'immaginario collettivo avrebbero dovuto cercare la voce di Dio stando ore in un ermo in ginocchio e a digiuno, invece trovano Dio quando trovano l'amico.