Un sondaggio condotto dall’Università dell’Insubria ha misurato la fiducia nelle istituzioni, nelle professioni, e sui motivi per cui l’informazione non coinvolge più come prima. Dal campione di 1.106 persone che hanno risposto al sondaggio su fiducia nelle istituzioni, nelle professioni e nei media, non esce un quadro molto confortante. È vero che il test è stato effettuato in un periodo in cui si attende ancora la formazione di un governo a distanza di due mesi dalle elezioni, ma i risultati sono in linea con sondaggi simili effettuati in Nord Europa e Stati Uniti.
Possiamo dunque parlare di una crisi globale, non solo italiana, quella che coinvolge alcune istituzioni, come quelle statali, e alcune professioni, in particolare quelle che riguardano i media, su cui il sondaggio si è focalizzato con una terza domanda per scoprire perché non ci si informa più.
Ne risulta un quadro non proprio positivo quello che indica la fiducia verso la professione giornalistica tra i più bassi, ottenendo solo l’8,2% delle risposte del campione, subito dopo i parrucchieri, con l’8,3%. Per non parlare dei blogger, ultimi nella classifica, con l’1,1%. Dati non così diversi da quelli ottenuti in Danimarca, dove l’ultimo sondaggio condotto nel 2017 ha attribuito un punteggio sulla credibilità dei giornalisti vicina a quella di tassisti, agenti immobiliari, venditori di auto e politici, tutti in fondo alla scala.
Sui motivi per cui c’è una disaffezione generale nei confronti delle news, la situazione non è molto diversa. Lo si capisce dal calo delle vendite dei giornali, che negli ultimi 10 anni ha portato alla chiusura di quasi 10 mila edicole in Italia (erano 38 mila), dal calo dei ricavi pubblicitari, dalla riduzione del numero dei giornalisti nelle redazioni, e dall’arrivo dei social network (grandi amplificatori delle fake news). E non è solo una questione di rivoluzione digitale, che ha certamente cambiato uno scenario che si era cristallizzato nei decenni precedenti. Il sondaggio rivela infatti che il principale motivo per cui non ci informiamo più è che l’informazione è diventata troppo spettacolarizzata pur di attirare l’attenzione (55%), come a dire che qualcosa è stato fatto per cambiare la situazione, ma evidentemente nella direzione sbagliata. Segue l’idea che l’informazione sia troppo condizionata da interessi di parte (44%).
A livello globale, la prima causa di disaffezione è dovuta al fatto che le notizie hanno un effetto negativo sull’umore delle persone (48%), la seconda è che i lettori mettono in dubbio le veridicità delle notizie stesse (37%), secondo l’annuale Digital News Report del Reuters Institute.
Ma come stanno provando a risolvere questo vuoto i nostri colleghi europei? La risposta è tanto semplice quanto logica, almeno nella testa dei consumatori di notizie, meno in quella degli editori. Attraverso un approccio più costruttivo alla costruzione delle notizie, ovvero trattando gli argomenti e i fatti con lo stesso rigore del giornalismo d’inchiesta, ma con una chiave di lettura che apre a possibili soluzioni, interventi risolutivi, best practics che hanno già risolto quel problema altrove o che sono potenzialmente in grado di farlo.
Soluzioni ai problemi, quindi, e non solo problemi. Il risultato è quello di non lasciare il lettore con l’amaro in bocca, con quella sensazione di indignazione, frustrazione, quel senso di impotenza che porta ad allontanarci dal problema, e quindi dalle notizie che, così come vengono scritte oggi, non sono quasi mai oggettive e non portano alcun valore aggiunto a chi le legge. Per le testate che hanno creduto nell’approccio del giornalismo costruttivo, c’è stato infatti un recupero sensibile dell’audience persa in decenni di cattiva informazione, come testimoniano New York Times, The Guardian, BBC, la tv di stato danese, per citare solo alcuni esempi.
La situazione non può dunque che migliorare, dopo aver toccato il fondo. L’Italia, si sa, arriva sempre qualche anno dopo, ma i cambiamenti arriveranno anch’essi, inesorabili.