Non servono norme specifiche per il web. Ciò che è illecito offline lo è anche online ed è già disciplinato dal quadro normativo vigente. Dovremmo ripeterlo come un mantra ogni volta che nel dibattito pubblico qualcuno, di solito politici o giornalisti poco inclini a confrontarsi con un concetto ampio di libertà, infila il dito fra le derive amplificate da internet e inizia a invocare norme ad hoc per la rete. Eppure anche questa regola aurea ha le sue eccezioni. Una di queste, per esempio, riguarda il revenge porn, ovvero la diffusione di immagini intime (foto o video) della ex compagna a scopo di vendetta.
Cosa ci insegna il caso di Tiziana Cantone
Ma andiamo con ordine. In primis assumendo che ci debba essere un'interpretazione estensiva quando si parla di revenge porn. Prendiamo il caso tragico di Tiziana Cantone: stando a quanto dedotto dagli inquirenti non si trattò di revenge porn in senso stretto; Tiziana e il fidanzato probabilmente condivisero di proposito quel video con dei conoscenti. Eppure la successiva divulgazione e condivisione che resero quel filmino virale su internet, causarono a Tiziana una gogna mediatica e un'umiliazione che la condussero al suicidio.
Il caso di Viareggio, e la gogna
Si tratta di un tema scottante, rispetto al quale si contano migliaia di casi nel mondo, che torna ora d'attualità con la recente vicenda della donna di Viareggio che avrebbe condiviso per errore sulla chat whatsapp delle mamme della scuola un video hot destinato probabilmente al marito. Un errore che le è costato caro. Il filmino è presto diventato virale, traslocando – per mano di qualche appartenente alla chat - da Whatsapp verso alcuni siti i cui link sono stati condivisi in modo compulsivo, rendendo virale quel filmato e cristallizzando nell'immaginario della comunità viareggina e di tantissimi utenti della rete pochi fotogrammi della vita di una donna, che ora – insieme alla sua famiglia - sta scontando un'insopportabile gogna mediatica.
Un frame che può travolgere un'intera vita
Insomma, che si tratti di revenge porn in senso stretto o di diffusione di immagini intime anche in seguito a una leggerezza della vittima stessa, la spirale di condivisioni che trasforma ciò che è intimo in virale, distorcendo l'immagine delle persone replicando all'infinito un singolo frame della loro esistenza, può travolgere le vittime trascinandole nel fango di un'umiliazione da cui non è concessa redenzione.
Per questo motivo oggi inserire nel nostro codice penale il reato di revenge porn, intendendo con esso la pubblicazione, la diffusione e la condivisione di immagini senza che la vittima abbia dato il proprio consenso alla diffusione, non sarebbe uno scandalo. Molti paesi, fra i quali Germania, Regno Unito, Australia, Israele e 34 Stati degli USA già disciplinano il reato. In Italia, anche in virtù di un quadro normativo ad ampio spettro, la fattispecie in questione può essere inquadrata come diffamazione, violazione della privacy, stalking, tentativo di estorsione, trattamento illecito dei dati. Ma l'aumentare dei casi e la loro pericolosità intrinseca per le vittime impone un salto di qualità.
Alcune settimane fa, in occasione di un dibattito pubblico nel quale avevo il ruolo di moderatore, ho sollecitato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, circa questa necessità. Il ministro mi ha risposto che di fatto il revenge porn è stato già parzialmente normato con il decreto legislativo sulle intercettazioni firmato a settembre e salito agli onori delle cronache come “norma D'Addario”. Nello specifico il passaggio a cui fa riferimento il ministro è il seguente:
“si prevede una pena fino a 4 anni per chi al fine di recare danno all'altrui reputazione o immagine, riprende o registra un colloquio privato. La punibilità è esclusa per il diritto di cronaca e se il colloquio serve a fini giudiziari”.
Quello che però il ministro sembra dimenticare è che il revenge porn non si forma attraverso registrazioni fatte di nascosto e all'insaputa della vittima come il decreto legislativo prevede: anzi una delle sue componenti strutturali è l'esatto contrario, ovvero la consapevolezza e il consenso della “futura vittima” nel momento in cui il video o le immagini vengono registrate. Ciò che identifica il revenge porn, pertanto, è quanto avviene dopo: è la sua diffusione (non autorizzata dalla vittima) a creare il danno e a configurare il reato. Ed è su questo che bisognerebbe disciplinare una norma di contrasto.
Il reato non è filmare, ma la diffusione
Che il tema sia in qualche modo arrivato sotto gli occhi del legislatore lo conferma una proposta di legge presentata nel settembre 2016 relativa all’articolo 612 del codice penale per disciplinare il reato di diffusione di immagini e video sessualmente espliciti. Nella proposta si prevede la reclusione fino a tre anni per chi pubblica immagini private con aumenti di pena se il fatto è commesso dal partner. Si tratta di un primo timido segnale di presa di coscienza da parte della politica. Peccato che da un anno a questa parte non si sia mossa una foglia.
Inoltre la proposta, che dispone giustamente pene per chi pubblica le immagini, ossia il primo e principale responsabile del reato, non prevede invece alcun meccanismo di contrasto né di dissuasione nei confronti di utenti terzi che condividono quelle immagini contribuendo ad amplificare il danno, né disciplina tempestive azioni di rimozione di quei contenuti. Tutti aspetti che andrebbero soppesati meglio e in tempi, auspicabilmente, rapidi. L'allarme sociale di questo reato e il danno per le donne che lo subiscono è troppo elevato per continuare a perdere tempo cullandosi sugli allori di norme troppo deboli e spesso inefficaci per tutelare davvero le vittime e dissuadere i colpevoli.