Il 28 agosto di 38 anni fa moriva Franco Basaglia: decisamente troppo presto. Per lui, che aveva solo 56 anni e ancora tanto da dare e da dire, ma anche per la rivoluzione che aveva innescato. Non così presto però da non essere riuscito a lasciare segni potenti e indelebili di un cambiamento necessario e possibile. Segni che anche le dichiarazioni estive di un ministro non possono cancellare e che a Trieste sono visibili e palpabili.
La prossima volta che viene a Trieste il vice premier Salvini dovrebbe salire a San Giovanni, il luogo che dimostra — per dirla con le parole dello stesso Basaglia — che l’impossibile può diventare possibile. San Giovanni, un tempo sede dell’ospedale psichiatrico provinciale, un manicomio che ospitava quasi 1200 persone, che tali non erano considerate, oggi è un bellissimo parco restituito alla città, dove hanno trovato casa seimila rose, insignite nel 2015 del Certificato di Eccellenza da parte del World Federation of Rose Societies. Dove hanno sede l’Università, l’Azienda sanitaria, alcuni istituti superiori, alcune cooperative sociali frutto della deistituzionalizzazione, un teatro, un ristorante.
Dove, specialmente nella stagione più favorevole, gli eventi pullulano: quest’anno dopo “Horti Tergestini”, mostra di piante fiori e cose naturali che ha registrato oltre 10 mila visitatori, è andata in scena “Rose Libri Musica e Vino”, una rassegna che attraverso conversazioni lezioni universitarie momenti musicali degustazioni da otto anni a questa parte nel mese di maggio mette in connessione generazioni e saperi e che quest’anno, nel 40° dell’approvazione della Legge 180, si è occupata di diritti e ha avuto tra gli ospiti la magistrata Caterina Chinnici (nella foto di Lorenzo Bandelli), che ha parlato di mafie e minori, ricordando la passione per le rose del padre Rocco, assassinato da Cosa Nostra il 29 luglio 1983, e l’ex sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, che ha raccontato come è possibile restare umani al tempo dei migranti. E ora è la volta del “Lunatico festival”: da giugno a settembre musica teatro e narrazioni per ritrovarsi e ritrovare strumenti di ragionamento. Tutte attività all’insegna dell’inclusione sociale praticata dalle cooperative nate dopo il ’78. Ma il Parco di san Giovanni, che è il luogo della quotidianità della rivoluzione basagliana, in primavera ha ospitato anche il forum internazionale “Democrazia e salute mentale di comunità” e un convegno dedicato alle microaree, che ha avuto tra i relatori Sir Michael Marmot, direttore dell’Institute of Health Equity dell’University College London.
Le microaree sono un altro segno tangibile delle intuizioni dello psichiatra veneziano: la convinzione che dalla malattia mentale si può guarire, ma lo si può fare solo insieme, in un contesto comunitario. Da qui nasce la cultura della medicina di territorio a Trieste e in regione, una medicina che «si fonda su un modello di intervento proattivo, prevalentemente domiciliare, fortemente integrato, di presa in carico a tutto campo, che si relaziona con il territorio di pertinenza, che alle risorse di quel territorio può attingere, che sta nel quotidiano della vita reale», come spiega Maria Grazia Cogliati Dezza, già coordinatrice sociosanitaria dell’Azienda sanitaria triestina. Al centro non c’è più la malattia ma il malato, di cui si considera la sua cultura, le sue credenze e pregiudizi nei confronti della medicina, così come il contesto abitativo, la presenza o meno di familiari, la solitudine, il reddito, l’occupazione.
Diceva Basaglia: «il malato non è solamente un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità». Del resto che i così detti determinanti sociali incidano sul percorso di salute lo ha dichiarato dieci anni fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità: «Le disuguaglianze nella salute hanno origine dalle condizioni sociali in cui gli individui nascono, crescono, vivono, lavorano e invecchiano, ossia dai cosiddetti “determinanti sociali della salute”. Siamo convinti che intervenire su tali determinanti, risulti essenziale per creare società eque, e costituisca per tutti i decisori un imperativo etico». Ma lo aveva già affermato Basaglia più di quarant’anni prima, concentrandolo in un proverbio calabrese che era solito citare spesso e che recita: “Chi non ha non è”.
Le microaree triestine, sedici avamposti in aree periferiche urbane o extraurbane, sono la declinazione pratica di queste teorie, in un contesto dove i distretti sanitari sono articolati sulle 24 ore con servizi per anziani, bambini, adolescenti, donne e famiglie, ambulatoriali e domiciliari. La microarea, racconta ancora Maria Grazia Cogliati Dezza, «è uno spazio multifunzionale spesso dotato di punto ristoro e aperto alla sperimentazione di forme di parziale autogestione da parte degli abitanti: pranzi condivisi, orto sociale, biblioteche diffuse, distribuzione di frutta e verdura con il progetto “Trieste recupera” (una onlus che combatte lo spreco, ndr) e l’alimentare invenduto dei commercianti di zona. È ricco di calore e di vita, si intrecciano relazioni. Le persone si attivano e promuovono a loro volta le capacità di altre. Cittadini che utilizzano la sede per il corso di ballo, di inglese, di computer, restituiscono ore di volontariato in aiuto a chi sta peggio. Un vù cumprà che chiede l’elemosina davanti al market diventa l’assistente familiare di alcuni anziani che lo pagano con il Fondo per l’Autonomia Possibile. Il tossicodipendente in misura alternativa alla detenzione si occupa del punto ristoro. I rifugiati, mal accolti dal rione, imbiancano corridoi e sottopassaggi di Valmaura (un quartiere di Trieste, ndr) e sono così apprezzati… una ricchezza di rapporti, occasioni, iniziative che trasforma un luogo anonimo e di degrado in uno pieno di vita».
Non è vero, come ha dichiarato Salvini, che un’assurda riforma ha lasciato nella misea migliaia di famiglie con parenti malati psichiatrici: se le puntuali risposte degli psichiatri italiani non lo hanno ancora convinto, venga a Trieste a vedere con i suoi occhi. Sono certa che il governatore della Regione Massimiliano Fedriga sarà lieto di accompagnarlo.
Di strada da fare ce n’è ancora tanta, ma è la direzione quella che conta.