È passato ormai un anno da quando l'Oxford Dictionaries ha eletto post-truth parola del 2016, quasi a voler focalizzare l'attenzione su quanto fenomeni come l'elezione di Donald Trump in USA, la Brexit nel Regno Unito o il Referendum Costituzionale in Italia, fossero intimamente legati a questo nuovo processo – creativo, interpretativo? – di costruzione della realtà.
Più che il superamento della verità, che è forse apparsa in maniera incontrovertibile e fulgidamente riconoscibile solo nelle distopie totalitarie novecentesche e nei sogni messianici delle sette religiose, la post-verità potrebbe indicare un processo di invenzione della realtà su base emotiva, caratterizzato dalla diffusione di credenze slegate da qualsiasi validazione logico-razionale, a favore di un comune rispecchiamento in quella specifica narrativa.
Questa definizione probabilmente è utile a dare una forma teorica di questo fenomeno: gli esseri umani comunicano in continuazione e spesso lo fanno per aumentare la propria influenza sociale e rafforzare i legami del proprio gruppo. La storia invece ci ricorda che in passato si credeva alla Terra fosse piatta o che Zeus scatenasse guerre per i propri capricci; siamo semplicemente scimmie evolute e abbiamo sempre preferito credere a ciò che più faceva comodo in determinati momenti.
Laddove giustamente gli studi quantitativi individuano nel pregiudizio di conferma – confirmation bias – la tendenza a selezionare solo gli elementi che soddisfano le nostre idee preconcette, è opportuno notare che il filtraggio acritico dei fatti e delle opinioni che ci seducono e la ricerca costante di altri individui che le supportino sono parte di qualcosa di noto da molto tempo, non certo un effetto dovuto ai social media tout-court. L'elemento quantitativo chiaramente senza precedenti – parliamo di studi condotti su oltre 300 milioni di utenti Facebook, con oltre 3.000 milioni di like e 300 milioni di commenti – fa capire quanto i Big Data costituiscano un nuovo modo di fare ricerca sociale che gli ambiti tradizionali farebbero bene a tenere in conto, prima di trovarsi tagliati fuori da ogni possibilità di capirci qualcosa.
In realtà molto spesso questi ambiti – accademia, politica, istituzioni, ecc. – non tengono conto nemmeno dei rilievi qualitativi o più strettamente legati a metodi di ricerca tradizionali: non occorre scomodare Manuel Castells e Geert Lovink, o Carlo Formenti e Franco Berardi per trovare testimonianze, recenti e meno, sulle problematiche degli ambienti mediologici digitali e sulle nuove interazioni sociali che questi determinano. Siamo lontani dalla tecnofilia ultrapositiva incarnata da altri autori, non c'è dubbio, ma la rete di oggi ha ben poco del sogno utopico degli anni Novanta, che ha lasciato spazio a isterie, falsità, odio. Qualcosa che ha provato sulla propria pelle Microsoft quando ha dovuto ritirare in fretta e furia Tay, intelligenza artificiale che, in pochissimo tempo, interagendo con lo sciame digitale e l'intelligenza collettiva di internet, è divenuta nazista, ninfomane, razzista e filo Trump.
Internet e il digitale sono fenomeni passati in pochissimi anni da una specifica nicchia – nerd, geek, hacker, mediattivisti, blogger, gamer, ecc. – alla moltitudine degli utenti da social network, questo è uno dei problemi. Più un medium si diffonde, più aumentano sia le possibilità di espressione democratica che quelle di tecno-controllo sociale; empowerment del singolo cittadino in rete – network citizen → netizen – e allo stesso tempo panopticon digitale a uso e consumo di enti, corporazioni e governi; questa è l'Internet di oggi.
Non solo, l'aumento comporta ugualmente la possibilità di attivare processi virtuosi, estetici, scientifici – nel caso di Internet si pensi ad esempio alla net-art o alla divulgazione libera dei testi digitali – e processi negativi, totalitari, brutali.
In parole povere, non è tutto oro ciò che luccica; nel caso di Internet, che non è un medium in senso stretto, ma un iper-medium che porta a convergenza tutti i precedenti sistemi di comunicazione e li rende disponibili simultaneamente su scala globale, oltretutto a un costo ormai accessibile su dispositivi personali sempre connessi, appare evidente come i punti negativi stiano sopravanzando quelli positivi, mentre la presunta democratizzazione somiglia sempre più a una balcanizzazione, con tanto di guerriglie dell'informazione.
In tal senso appare illuminante l'intervento di Ciro Ascione, che in tempi non sospetti, col suo libro Troll. Come ho inguaiato internet, ha descritto al meglio la parabola delle culture digitali in ascesa quasi vent'anni fa.
“Ormai su Internet ci sono tutti, e per il 99,9 per cento dell’utenza, stare su Internet significa stare sui social. E i social non sono liberi e autogestiti come i siti e i blog, devi rispondere della tua condotta a qualche anonimo moderatore che obbedisce a una policy imposta dall’alto".
Una prima considerazione, che unisce idealmente la seriosità degli studi quantitativi in materia di fake news alle opinioni di chi Internet l'ha trollata per davvero, è che il pregiudizio di conferma verso le narrazioni condivise nell'ambiente digitale riguarda principalmente i social media, come Facebook o YouTube. Condividere una notizia falsa, presa magari da un sito complottista tirato su con pochi spiccioli, per poi rispecchiarsi in quella narrativa è un meccanismo che senza la quantificazione di like, condivisioni e commenti difficilmente funziona. Soprattutto, considerato che gli algoritmi di selezione tendono a costruire la bolla informativa intorno all'utente e alle sue preferenze, è praticamente impossibile confrontarsi e cambiare idea in seguito. Tanto è vero che smontare le bufale non serve: il debunking e gli atteggiamenti polarizzanti – scienziati vs. somari – peggiorano le cose.
Quando alcuni anni fa col Centro Studi Democrazie Digitali abbiamo promosso la ricerca Infosfera 2016 è stato chiaro sin da subito che caos informazionale e disintermediazione sono in diretta correlazione, ma non è detto che maggiore consapevolezza culturale del nuovo ambiente mediologico e digital literacy estesa a vaste porzioni di popolazione possano risolvere semplicisticamente la questione.
Anzi, a vedere i primi dati di Infosfera 2018, pare che il problema delle fake news sia sempre più dentro ai confini, enormi e transnazionali, di Facebook. Da qui il provocatorio titolo di questo intervento: chi si è stancato di vedere falsità e disinformazione dovrebbe semplicemente uscire dalla propria bolla socialmediatica, spegnendo un po' i propri dispositivi personali.
Ugualmente, i governi potrebbero iniziare a pensare seriamente a contrastare l'influenza dei colossi di Silicon Valley, specialmente in tempi di campagna elettorale: basta acquistare un sito con wordpress per confezionare in poche ore decine di post da disseminare su Facebook, attraverso account ingegnerizzati e investendo nelle sponsorizzazioni. Un sito con contenuti diffamanti può essere chiuso relativamente in poco tempo, ma i contenuti continuerebbero a essere visibili sui social media, fino a eventuale rimozione successiva. Non si può pretendere che algoritmi e personale dedicato riescano a fare una continua ed efficace pulizia, mentre milioni di utenti perseverano nel consumare bulimicamente ogni pezzo di informazione utile alla propria dieta mediatica. Dedicare qualche ora in meno a smartphone e computer è il primo passo per uscire dall'iperrealtà delle bolle digitali, per tornare a toccare la realtà fenomenica con le proprie mani, piuttosto che costruirla a colpi di like e condivisioni.