Due suicidi di donne registrati dalla cronaca, anche nazionale, a distanza di pochi mesi a Trieste: tre giorni fa una trentenne si è lanciata nel vuoto dal sesto piano della sua abitazione; tre mesi fa una trentanovenne ha abdicato alla vita dopo aver assunto un letale cocktail di psicofarmaci. Diverse le modalità con cui hanno deciso di farla finita, ma queste due donne avevano oltre alla provenienza geografica almeno altri due elementi in comune: erano madri e avevano subito violenza e maltrattamenti in famiglia.
Senza indulgere in facili correlazioni, c’era evidentemente un ulteriore aspetto che le avvicinava: un profondo malessere. Un malessere grave su cui non s’indaga ancora abbastanza, nonostante i dati raccolti dai centri antiviolenza e nonostante la percentuale di donne vittime di una qualche forma di violenza di genere sia a dir poco significativa: stiamo infatti parlando del 25% della popolazione femminile, un dato che in qualsiasi altro contesto di analisi sociale o sanitaria comporterebbe l’adozione di misure drastiche di contrasto del fenomeno.
Ma come si manifesta questo malessere? Con attacchi di panico, ansia, depressione, disturbi del sonno e dell’alimentazione, ma anche con pensieri ossessivi, un forte abbassamento dell’autostima e un grande senso d’impotenza, sintomi fisici e psicologici che sono conseguenza della violenza subita e che inevitabilmente si riflettono sul modo di esercitare il ruolo materno.
Il centro antiviolenza Goap di Trieste, vent’anni di esperienza alle spalle, riferisce che, a fronte di 1893 donne trattate tra il 2009 e il 2016, già nel primo colloquio 1088 di loro, ovvero il 57%, raccontavano di avere paura, 526 (il 28%) di essere soggette a ansia, fobie e crisi di panico, 598 (il 32%) di essere in preda alla disperazione e di avvertire un forte senso d’impotenza, mentre 323 donne (corrispondenti al 17%) parlavano di depressione e 62 (il 3%) già manifestavano idee di suicidio e autolesionismo.
Dati eloquenti che dimostrano, se mai ce ne fosse bisogno, che subire violenza è un’esperienza traumatica che si ripercuote su tutto il vissuto e il contesto della vittima e che tende ad aggravarsi ulteriormente nel periodo che segue alla denuncia del maltrattante, spesso unica soluzione a disposizione della donna per difendersi: in quella fase, caratterizzata dalle indagini e dall’accertamento della verità giudiziaria, una fase in cui raramente la donna può contare su misure cautelari emesse a sua tutela, aumentano in lei da un lato la paura di non essere creduta (nonostante più della metà delle vittime di femminicidio del 2016 avesse denunciato), dall’altro il senso di colpa per il danno che si arreca all’ex compagno nonché padre dei propri figli.
E tutto ciò altro non fa che aumentare la sofferenza e il malessere, che a volte può arrivare agli esiti che sono in questi giorni sotto gli occhi di tutti.
Il rispetto dovuto davanti a scelte definitive che non è possibile spiegare fino in fondo non deve impedire di dire con chiarezza che non sono decisioni inevitabili, che si può fare di più, che ci sono responsabilità sociali che non possiamo far finta di non vedere, perché il malessere di queste donne non è un loro problema personale.
Si potrebbe ricorrere meno raramente di quanto si fa nell’ordinario a strumenti a tutela della vittima previsti dalla legge quali ad esempio l’incidente probatorio, che eviterebbe alle donne di dover ripetere le violenze subìte in presenza dell’uomo che le ha agite.
Si potrebbe favorire l’emersione della violenza, spesso ancora molto invisibile, se tutti coloro che a vario titolo vengono a contatto con le donne — dai medici di base agli avvocati alle forze dell’ordine — fossero sufficientemente preparati per riconoscerla, anche sapendo leggere quei tanti sintomi fisici e psicologici troppo spesso ricondotti a patologie e non collegati al vissuto di violenza.
Si potrebbe credere alle donne e ai bambini, screditando semmai — dati alla mano — i fautori di teorie negazioniste (come la così detta Sindrome di Alienazione Parentale e la supposta epidemia di false denunce) e gli estensori di proposte di legge, una tra tutte il decreto Pillon, che a queste teorie danno spazio e dignità normativa.
Ricerche scientifiche dimostrano che è bassa la percentuale di false denunce (ovvero quelle presentate in mala fede, con l’intenzione e la consapevolezza di accusare qualcuno ingiustamente e con finalità vendicative) e che quest’ultime non aumentano in fase di separazione coniugale, come dimostrano che la PAS (la Sindrome di Alienazione Parentale, ovvero quella patologia, non basata su studi scientifici attendibili né mai inserita in alcun manuale diagnostico, che si verificherebbe quando, in particolare nei casi di separazione, un genitore – solitamente la madre – mette il figlio contro l’altro genitore manipolandolo) in realtà non esiste.
Si potrebbe anche evitare di mandare in onda “scherzi” come quello giocato dalle Iene al capitano del Napoli Lorenzo Insigne, perché non c’è proprio niente da ridere: non ridono le donne che quotidianamente subiscono maltrattamenti e violenza, non ridono i bambini e le bambine che quotidianamente vi assistono. La violenza non fa ridere, la violenza uccide.