Il video del ragazzino che nella classe di una scuola di Lucca bullizza il professore, intimandogli di inginocchiarsi, mentre i compagni, complici, riprendono la scena con lo smartphone e ridacchiano fra loro ha fatto il giro del web, rimbalzando da Whatsapp a Facebook fino alle principali testate giornalistiche italiane. Su quella scena si sono scatenati commenti di ogni genere, opinionismi in bilico fra il sociale e il sociologico, fra il pontificante e il classista. Alcuni hanno scritto a proposito, altri meno.
Ci si è giustamente interrogati sul ruolo della famiglia, sul rapporto fra genitori e figli, ma anche su quello fra genitori e docenti (chi non ricorda il caso del padre che, qualche mese fa, ha picchiato il vice-preside di una scuola secondaria di I grado a Foggia reo di aver rimproverato suo figlio?). Qualcuno ha suggerito di cercare le cause nell’indebolimento del sistema scolastico indagando sul perché il ruolo della scuola all’interno della società stia progressivamente collassando. Altri, invece, sono andati decisamente oltre vedendo in quell’episodio un problema di classi sociali (“i cafoni sono all’Itis, mica al Liceo Classico”). Eppure resta l’impressione che tutti stiano sottovalutando il punto focale dell’intera faccenda.
La sensazione è che, oggi più che mai, simili episodi abbiano a che fare con il nostro essere iper-connessi. Internet non sta cambiando soltanto la società, sta anche cambiando noi, che della società siamo i protagonisti. Oggi il web, oltre a essere uno strumento straordinario e, ormai, indispensabile in quasi tutti i campi della nostra vita è anche diventato una vetrina virtuale, un palcoscenico aperto a tutti in cui ognuno di noi, appena può, mette in scena (o espone) qualcosa. Qualcuno l’ha definita “la società del like”: oggi ciò che più conta per affermare se stessi, o meglio per coltivare l’illusione di affermare se stessi, sono i numeri sui social e i like sotto una foto. Un appiattimento che ci sta rendendo schiavi di una semplificazione mentale che impigrisce l’intelletto imponendo falsi valori. In questo contesto gli adolescenti, permeabili come spugne a certe sollecitazioni, diventano i protagonisti involontari della deriva.
Gli smartphone in classe (terribile abitudine ingiustamente tollerata) sono, in casi come quello di Lucca, un incoraggiamento a mettere in scena le proprie bravate, perché i protagonisti cercano un pubblico potenzialmente superiore a quello dei presenti. Forse è proprio l’amplificazione della “prodezza” a rafforzare i propositi del bullo. Tanto che la vera domanda da porsi, dopo lo scandalo su scala nazionale suscitato da quel video, è: i teppistelli in questione avranno capito la gravità della loro azione o si staranno beando del clamore mediatico suscitato dal caso? Il protagonista del video si starà vergognando o sta vivendo un momento di gloria?
Temo che il nocciolo della questione sia davvero racchiuso in queste sue domande. Non è questione di istituti, cultura o classi sociali. La questione è molto più profonda e riguarda un mutamento epocale della società. Se i social continueranno a imporre l’etica dell’apparire su quella dell’essere, allora la battaglia è persa in partenza. E i bulli continueranno a cercare il proprio appagamento nell’amplificazione del web.
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