Sono intorno a noi, ovunque. Voi credete di conoscerli, li considerate amici, parenti, vi sedete a cena con loro, li invitate ai vostri matrimoni, magari ci viaggiate assieme e arrivate perfino a condividerci una casa o addirittura un figlio; il tutto senza avere il minimo sospetto circa il segreto che si portano dentro e che riescono a celare con cotanta maestria: non gli piace la musica dei Queen. Ebbene si, sappiamo di stordirvi con un’affermazione di questo tipo, eppure è vero, esistono.
Si muovono senza dare nell’occhio come provetti Men in Black, avanzano in questa tormentata esistenza intimamente convinti, convinti davvero, che la musica dei Queen sia troppo commerciale, una roba da femminucce pop. Sono i tipici nerd/wave che si sentono sentimentalmente traditi quando una band viene ascoltata da più di venti persone. C’era anche un gruppo su Facebook, ora sparito, contava circa 5000 iscritti, e si scambiavano meme ben poco divertenti su quanto fosse sopravvalutato Freddie Mercury.
Si danno di gomito sorseggiando alcolici scadenti e sorridono mentre riassumono con nonchalance, ed una fastidiosissima dose di snobismo, la magnificenza di un’epopea straordinaria come quella della band inglese con un (cit.) “cumulo di gridolini da frocetti”.
Poi c’è chi, come chi vi scrive, forse semplicemente dotato di un apparato uditivo funzionante, sta sulla sponda opposta del fiume, un po' perché riconosce in almeno una quarantina di loro pezzi il punto più alto mai raggiunto dalla musica rock, in uno in particolare, Bohemian Rapsody, quella perfezione che puzza di genio e capolavoro ineguagliabile (certamente ineguagliato); e un po' perché per un’intera generazione sono stati i primi: non eravamo pronti ai Rolling Stones, non avevamo la pelle ancora così dura per capire la potenza trascinante e rivoluzionaria dei Led Zeppelin, e nemmeno l’orecchio per farci portare su un altro pianeta dai Pink Floyd; e non volevamo amare i Beatles, giusto per il sacro principio adolescenziale per cui straniva l’idea di poter condividere la band preferita con i nostri genitori. Massimo rispetto, ma ad ognuno il suo.
Are you ready? Are you ready for this? Are you hanging on the edge of your seat? Watch the final trailer for #BohemianRhapsody now. In theaters next week! pic.twitter.com/bXZehVLSg8
— Bohemian Rhapsody (@BoRhapMovie) 25 ottobre 2018
Quindi immaginerete quanto potesse risultare spasmodica l’attesa per l’uscita del primo vero biopic sui Queen, che prende il titolo dal suddetto capolavoro “Bohemian Rapsody”. Ne avevamo sentite di ogni, essendo, ca va sans dire, tra gli ultimi in Europa a poterlo vedere in sala, e le critiche che arrivavano dall’estero non auspicavano niente di buono. “Ma quelli sono stranieri, hanno inventato il Big Mac, mangiano rospi, non hanno il bidet, cosa vuoi che ne capiscano??” si pensava sperando avessero torto.
Una storia pericolosamente compromessa
Ma il dubbio restava in agguato, per cui non è che ci si aspettasse un capolavoro che riuscisse ad omaggiare in maniera schietta e onesta la storia della band, basata, come molti affamati consumatori di biografie sanno benissimo, più sull’eccentricità di Mercury che sull’anedottistica che coinvolge anche Brian May, Roger Taylor e John Deacon; non ci aspettavamo un “Ray” insomma, o un “Walk the line”, ma nemmeno di uscire dalla sala talmente perplessi. Non parliamo di certo degli otto errori perfettamente riportati da Rolling Stone nel loro fact-cheking del film, figuriamoci, sappiamo bene che spesso serve forzare un tantinello la realtà per modellarla a favore di sceneggiatura, niente di clamoroso; ma qui la storia della band è pericolosamente compromessa.
Lo chiami Bohemian Rapsody ma non racconti come è nata la canzone, da quattro tracce differenti, idea folle di Mercury per il quale combatté un’aspra battaglia con gli altri membri dello staff, band e produttori compresi, convinto, e cavolo se aveva ragione, di aver avuto un’intuizione mistica, illuminata. Si, certo, si discusse molto anche sulla durata del pezzo, ai piani alti proporre proprio quella canzone come singolo non convinceva moltissimo, radiofonicamente sei minuti sono un’eternità di tempo (lo sono ancor più oggi forse), infatti ci mise qualche settimana ad ingranare come si deve, ma non vi fu alcuna rottura con la Emi. La composizione del brano, ben oltre la registrazione di “Galileo! Galileo! Figaro!”, poteva e doveva essere documentata meglio.
Certo, è un film e non può durare un’eternità, lo capiamo, ma lo stesso molte cose non convincono, dato che la prima parte, ripetiamo, con tutti i limiti imposti da una sceneggiatura, pare avere davvero la pretesa di entrare nei particolari della formazione del gruppo per poi, una volta arrivati gli anni ’80, accelerare vertiginosamente la storia, confondendo inutilmente la cronologia dei fatti, per andarsi a schiantare, concludendosi, con l’esibizione al Live Aid, come se fosse la fine di un percorso che invece toccò l’apice diversi anni dopo, forse con l’uscita di Innuendo, nel ‘91, l’ultimo disco messo sul mercato quando Mercury era ancora in vita.
Enormi "buchi"
A kind of magic, The Miracle…tutto cancellato, come se “One Vision”, “Friends Will Be Friends”, “Who Wants To Live Forever”, “I Want It All”, ma soprattutto “These Are the Days of Our Lives”, la canzone con la quale Mercury decide di salutare ufficialmente il suo pubblico sei mesi prima di morire, con quel video girato in bianco e nero, senza trucco, forse per la prima volta in vita sua, per non nascondere più, anzi mostrare, i segni del suo male, quando a malapena si reggeva in piedi, e quel primo piano finale, commovente, e quelle parole “I still love you”, con le quali si congeda dalle scene; tutto cancellato, come se niente di tutto ciò avesse un significato, come se non segnasse il passo in maniera decisiva nel percorso dei Queen; come se ancora oggi, quando pensiamo ad andare avanti nelle difficoltà della vita, non ci venisse in mente immediatamente che, nonostante tutto, “The Show Must Go On”, lo spettacolo deve continuare.
Tutto riassunto in quei 20 minuti del Live Aid, dove tra l’altro Bob Geldof nemmeno li avrebbe voluti, a causa di quei concerti a Sun City di qualche mese prima, città sudafricana abitata soprattutto da ricchi bianchi considerata il simbolo dell'apartheid, dove i Queen non si rifiutarono di suonare; e dove, tra l’altro, non viene evidenziato abbastanza bene come loro, forse di conseguenza a quelle reticenze, in mezzo a tutte le più importanti star della musica mondiale, abbiano avuto la sfacciataggine di andargli a cantare in faccia, urlando, che no, non ci siamo capiti, voi sarete anche bravi ma “We are the champions”, i campioni, i re, pardon, Queen, siamo noi. Esibizione considerata fondamentale come se solo un anno dopo, quello stesso stadio di Wembley, non l’avrebbero riempito ugualmente, e da soli, per quello che è stato forse il loro live più completo e spettacolare.
I Queen si sono sciolti?
E no, non è affatto vero che i Queen si sciolsero per poi riunirsi nell’85, ci furono dei momenti di pausa in cui decisero di provare la strada da solisti (e il primo a fare la scelta fu Roger Taylor) ma la band non fu mai nemmeno vicina allo scioglimento; suonarono insieme fino alla fine, alla morte del loro leader, approfittando, in quei sempre più limitati e flebili minuti di tregua concessi a Mercury dall’AIDS, per registrare il più possibile, come lui aveva espressamente chiesto. E i due album da solita di Mercury non sono quell’inutile immondizia che la pellicola vorrebbe farci credere; uno dei due lo canta accompagnando Montserrat Caballé, fate un po' voi, ma nemmeno questo è stato ritenuto importante. E men che meno il Live Aid fu l’occasione dunque che li fece ricongiungere, infatti arrivarono a quel 1985 dopo più di un anno di date in tutto il mondo con il “Works Tour”.
La malattia
E poi la vicenda AIDS. Questa merita proprio un capitolo a parte. Nella prima bozza di sceneggiatura, a quanto pare, a May e Taylor sarebbe piaciuto raccontare nella seconda metà del film la reazione della band alla morte del loro leader, scelta che fece abbandonare il progetto a Sasha Baron Cohen, il primo Mercury selezionato, “Gli dissi che nessuno andrà mai a vedere un film dove il personaggio principale muore per AIDS e la band va avanti!”. In Bohemian Rapsody invece Mercury rivela della sua malattia qualche giorno prima dell’esibizione al Live Aid, quindi nell’85, quando la diagnosi nella realtà venne fatta due anni dopo, nell’87, e non fu rivelata alla band se non nel 1989, quando ormai era impossibile nasconderlo, chiedendo loro di mantenere il segreto fino alla dichiarazione ufficiale, arrivata poi nel 1991, pochi mesi prima di lasciarci.
La scelta quindi, capirete, è ambigua. Se si vuole raccontare la storia dei Queen fino al Live Aid ok, va bene, è una scelta, magari non totalmente condivisibile, ma la si accetta; ma allora perché inserire nella narrazione la confessione alla band sulla malattia anticipandola quindi di sei anni? Non ha alcun senso. L’AIDS non insinuò solo le difese immunitarie di Mercury ma, come ogni malattia che si sa ti porterà inesorabilmente alla morte, rivoluzionò e amplificò anche il rapporto del cantante con la vita, quindi anche e soprattutto con la musica.
Raccontare i Queen senza accennare al modo, del tutto poetico, che Mercury trovò di far convivere malattia e musica, toglie al pubblico la possibilità di capire l’importanza che potesse avere il canto per il frontman della band, ben oltre il suo autodefinirsi semplicemente un “performer”. Si, è dura da ammettere, ma non si può raccontare la storia dei Queen senza dedicare ampio spazio alla malattia che colpì e uccise Mercury, non per soddisfare chissà quale macabra sete da gossip, ma perché ebbe un ruolo evidentemente fondamentale nella storia della band. Senza, manca un pezzo bello grosso di ciò che erano i Queen.
Poi, se vogliamo, possiamo perderci delle ore a discorrere sull’interpretazione di Rami Malek, ottima, come davvero impressionante la scelta degli altri membri della band, May e Deacon su tutti: identici. Ma il resto è tutto bocciato, talmente mal fatto da farla sembrare, a voler essere proprio maliziosi, un’operazione di volgare sciacallaggio nei confronti della figura di Freddie Mercury. È offensivo nei confronti di tutti coloro ai quali la musica dei Queen ha regalato attimi di profonda liberazione emotiva, escluderla quasi totalmente dalla narrazione e no, non viene salvato tutto in corner da una buona (ottima) imitazione; esattamente come il “Principe Libero”, orrendo prodottino Rai su Fabrizio De André, uno dei più importanti cantautori e poeti della storia di questo paese, non può essere salvato dalla meravigliosa interpretazione di Luca Marinelli. Non basta. Non basterà mai.
Non è che c’è molto di più rispetto a ciò che viene raccontato sullo schermo, è proprio che quel che conta non viene quasi nemmeno accennato. I biopic possono raccontare una storia o decidere consapevolmente di restituirne l’essenza. Bohemian Rapsody non fa né l’uno né l’altro, perché la storia è tutta sbagliata e l’essenza della musica dei Queen mortificata. Non stupiscono i 500 milioni di dollari incassati, stupisce più l’entusiasmo che viene espresso quasi unanime sui social dopo l’uscita della pellicola nelle sale italiane. “Bellissimo”, il parere è quasi unanime…e chissà cosa ne pensereste dei Queen se vi prendeste qualche ora per andare anche ad ascoltarvi i dischi.