Sulla storia dell’odio social contro Asia Argento, in seguito al suicidio del suo compagno Anthony Bourdain, si è scritto molto e con molta superficialità. Perché, al di là delle parole inqualificabili di un manipolo di imbecilli, ciò su cui forse vale la pena concentrarsi sono le parole in libertà con cui media e osservatori neutrali continuano a cavalcare, alla prima occasione, il racconto di qualcosa che statisticamente non esiste.
Portare avanti la narrazione relativa all’odio online sull’onda di un centinaio di tweet idioti significa alimentare un racconto non veritiero e fuorviante che non aiuta la causa. Significa rimestare nel torbido andando a pescare qua e là messaggi d’odio scritti da qualche cretino frustrato, spacciandoli per la regola quando in realtà sono l’eccezione (mentre la regola nel caso di Asia Argento è stata la reazione compatta del web in difesa della donna di fronte ai post imbecilli). Ma soprattutto significa regalare a pochi messaggi e a pochi odatori quella vetrina e quella visibilità che sono il vero obiettivo degli hater professionisti.
Allora, forse, vale la pena chiedersi perché i media si debbano sostituire ai meccanismi del web, amplificando ciò che non aveva trovato nessuna amplificazione in rete, facendo così da cassa di risonanza a tweet che praticamente nessuno si era filato. Forse per dimostrarci che al mondo esistono gli imbecilli? Questo lo sappiamo già. Basta farsi un giro a una riunione di condominio o fare zapping fra un salotto-tv e l’altro per prenderne coscienza. Di certo ha poco senso far passare un messaggio che sta diventando pericoloso nella sua banale ridondanza. “Il web che odia”, “la rete che odia” e via dicendo sono costruzioni retoriche che nel riassumere deformano.
La rete non prova sentimenti, le persone sì
Partiamo da un presupposto elementare: la rete non prova sentimenti. A odiare sono le persone, e, per quanto possa risultare efficace dal punto di vista sensazionalistico, un racconto che non espliciti questo passaggio è un racconto sbagliato e fuorviante. Poi ricordiamoci che le persone - se si decide di innalzare qualcosa a dignità di notizia o di dibattito pubblico - vanno analizzate come numeri. E 100 cretini non sono una notizia. Probabilmente non lo sono neanche 1000. Rovesciare questo concetto basilare implica far passare un messaggio che alimenta il mito del web brutto e cattivo e delle relative colate d’odio (anche con il possibile effetto collaterale dell’emulazione). Vale per i media e vale per tutti i censori online che dai propri profili cavalcano questa battaglia soltanto per fare self-branding.
Ma questo, forse, è il vero nocciolo della questione: l’odio online porta clic, consensi e audience. Il che non significa che bisogna negare il fenomeno, perché il tema a monte esiste ed è anche consistente; significa però trattarlo con lucidità evitando d’intingere il biscotto dell’opportunismo in una tazza di luoghi comuni soltanto perché l’argomento va di moda.
Per cambiare la realtà bisogna cambiare il modo di raccontarla
Nel caso di Asia Argento, per esempio, dopo i fiumi di parole su inciviltà e violenza online che hanno scandito la cronaca più recente la vera notizia, da sottolineare con vigore, era proprio quella del web civile e responsabile che ha preso le distanze in massa dai dementi che hanno aggredito Asia Argento, blastandoli senza appello.
Insomma, finché non cambierà il modo di raccontare la realtà difficilmente potrà cambiare la realtà stessa. Poi certo, in coda, una riflessione sul cosa spinga alcuni inqualificabili imbecilli a vomitare insulti e livore su una donna che ha appena perso il compagno merita un piccolo approfondimento. La frustrazione, l’ignoranza e la cattiveria esistono al di fuori della rete e da questo punto di vista i social sono una lente di ingrandimento che ci permette di osservare certe folli dinamiche al microscopio, raccontandoci un pezzo del mondo in cui viviamo. Il resto lo fanno la mancanza di cultura digitale e l’erronea percezione di alcuni secondo i quali in rete vale tutto e si può dire di tutto, perché tanto il virtuale non è reale; perché tanto non ci sono conseguenze.
Comprendere e far comprendere che invece virtuale è reale è una delle sfide più difficili a cui siamo chiamati.