Mi sono innamorato dell’Albania. E se sento l’urgenza di scriverlo è perché penso che lì stia capitando qualcosa di importante, qualcosa che ci riguarda tutti, e che potrebbe addirittura essere la risposta concreta ad uno dei grandi dilemmi del nostro tempo. Ma questa è solo una speranza. E le speranze vanno maneggiate con cura, quindi ne parliamo dopo. Alla fine.
Invece la certezza che ho, che credo di avere, dopo aver trascorso lì una settimana scarsa ma intensissima, attraversando il paese in auto e a piedi, girando come un matto, come se dovessi mangiarmi ogni sguardo, ogni scorcio, le sorprendenti meraviglie e le inevitabili cafonate, la certezza dicevo, è che turisticamente l’Albania è un gioiello raro, anzi rarissimo, per un motivo fondamentale: è ancora intatto.
Nonostante una indiscutibile bellezza, l’Albania è miracolosamente rimasta fuori dal turismo di massa, e soprattutto dal nostro che pure avremmo voli diretti quotidiani di tre compagnie aeree da una decina di città che ci portano lì in meno di un’ora, e che dalla Puglia e dalle Marche avremmo, abbiamo, traghetti low cost per arrivarci belli comodi con l’auto al seguito.
Eppure, dicevo, se entri in una agenzia di viaggi e chiedi dell’Albania ti guardano come uno svitato, mo’ che gli è successo a questo?; ti chiedono se devi andarci per lavoro o per una qualche punizione divina, chissà che avrà fatto di male?, lo leggi nel loro sguardo quando ti dicono che no, non hanno neanche una brochure, un pacchetto, un tutto compreso. Meglio! Vuol dire che è il momento perfetto per andarci, perché, credetemi, fra cinque anni al massimo vorranno andarci tutti.
Quelli che oggi fanno gli hipster a Formentera li incontrerete da Dhermi e Porto Palermo dove non sanno ancora cos’è lo spritz ma i tramonti sul mare turchese sono già perfetti e struggenti; la movida serale di Ferragosto sarà sinonimo di Valona, che qui chiamano Vlore, e Saranda, la perla più luminosa della loro lunghissima riviera; i turisti colti che in questi giorni passeggiano per la valle dei templi di Agrigento o a Pompei, scopriranno, come già fece Cicerone, quanto è bella Butrinto, ma anche Apollonia ha il suo fascino come sapeva Ottaviano che studiava lì prima di diventare Augusto; e i radical chic di Capalbio pontificheranno fra i vialetti ripidi di pietre nere e bianche di Argirocastro, che un incantesimo ha conservato intatta dai tempi dell’Impero Ottomano, e dove nei bar ti servono un amaro col ghiaccio mentre dagli altoparlanti si alterna la playlist di un’Italia che non c’è più ma che in fondo non se ne è andata mai: i Ricchi e Poveri, Rino Gaetano, Lucio Dalla.
E così dopo un po’ che giri col naso insù e ascolti certe canzoni ti ritrovi a pensare frasi sciocche come: sarà perché ti amo che il cielo è sempre più blu? E a fare una considerazione inaspettata, ovvero che in nessun posto del mondo, sono pronto a scommetterci, in nessun posto noi italiani veniamo accolti con tanta considerazione, ammirazione, affetto a volte, come se gli albanesi fossero i nostri “cugini di campagna” - non il gruppo musicale - da cui sarebbe ora di tornare ogni tanto abbattendo quel muro invisibile, e francamente ingiustificato, che c’è dentro molti di noi, il pregiudizio per cui quelli sarebbero un popolo “brutto, sporco e cattivo” manco fossimo in un film western. Beh, non lo sono e il film western, se mai ha avuto senso, è finito. Prima lo capiamo meglio è.
Quello che segue è una specie di reportage, molto personale, vagamente sentimentale, illuminato dall’emozione di una scoperta fatta per caso. Un viaggio prenotato all’improvviso, come fosse una fuga, anzi era una fuga, forse tutti i viaggi lo sono in un certo senso no?, un paio di clic online due giorni prima di partire, giusto per prenotare il volo, l’auto all’aeroporto e la prima notte a Tirana, incredibile, costa appena 30 euro in due?, sarà un errore?, chissà dove ci faranno dormire. Speriamo bene. Dai, partiamo. Fuggiamo.
Primo giorno, Tirana by night.
Tirana sembra il set di un film anni 50. Con i fili elettrici che passano a vista da un piano all’altro e poi da un palazzo all’altro e da una strada all’altra, e a volte si infilano in buchi nei muri che non sono solo buchi ma squarci, altre si incrociano nell’aria come se fossero quelli dei panni stesi formando strane ragnatele nell’aria. Non sto dicendo che sia tutta così, ci sono zone residenziali piuttosto eleganti, c’è il centro storico di sicuro pregio, ma Tirana è anche così. Epperò c’è una energia nell’aria che sa di futuro, di ricostruzione. Di lavori in corso. La quantità di palazzi che stanno tirando su adesso, qui e in tutta l’Albania, ti dice che presto sarà tutto diverso.
E pensi: meglio scattare subito una foto, perché la prossima volta questa immagine non la troverai. Finirà tutto sepolto da una colata di cemento? Non credo, il piano regolatore della città, Tirana 2030, lo ha firmato un grande architetto italiano, Stefano Boeri, quello del “bosco verticale” di Milano, i due grattacieli pieni di alberi e piante, e non deve essere una coincidenza se il piano albanese prevede, oltre ad una manciata di scuole che il pomeriggio diventeranno piazze di quartiere, che meraviglia, perché da noi no?; il piano prevede “un bosco orbitale”, ovvero la piantumazione di due milioni di alberi. Due milioni di alberi in una città che è grande come un paio di quartieri di Roma sono tanta roba. Oggi di tutto questo non vi è traccia naturalmente, il piano è appena stato varato, ma in fondo Tirana è già una capitale “designed in Italy” visto che negli anni 30 erano stati altri architetti italiani a disegnare le strade e molti dei palazzi del centro.
Siamo arrivati in città tardi rispetto al programma, subito dopo il tramonto. Al ritardo dell’aereo si è sommato quello del car rental, una compagnia low cost che nel frattempo aveva dato via la nostra auto. I ragazzi dell’agenzia si sono scusati in mille modi, parlandoci naturalmente in italiano. Scoprirò dopo che non è più così scontato per le persone con meno di trent’anni e c’è un motivo e non è banale.
Me lo ha riferito una studentessa universitaria a Girocastro, nell’ultima tappa del viaggio, ma è bene dirselo subito perché fa capire come le cose lì per noi stiano cambiando in fretta: trent’anni fa per evadere dal regime gli albanesi avevano solo la tv e la tv era la tv italiana, erano soprattutto i programmi di Mediaset, che facevano immaginare un paese ricco, spensierato e pieno di belle donne. Anche per questo quando cadde il regime, nel 1991, fra aprile ed agosto, partirono da Durazzo due mercantili con a bordo in tutto circa trentamila persone che sognavano l’Italia manco fosse Lamerica, scritto proprio così, come nel film di Gianni Amelio. Oggi c’è Internet, e i ragazzi non guardano più la tv, guardano Netflix sul telefonino: “Guardiamo i film e le serie tv in inglese”, mi ha detto la ragazza di Argirocastro che pure un po’ di italiano lo parla. Ma del resto perché dovrebbero impararlo, se noi siamo i primi a snobbarli?
La città è a venti minuti dall’aeroporto, un complesso moderno che risale agli anni ‘50 ma è stato recentemente rifatto e acquistato al 100 cento 100 da una finanziaria cinese di base ad Hong Kong: non è un caso, la nuova “via della Seta” della Cina di Xi Jinping passa attraverso l’acquisizione di infrastrutture strategiche europee da dove far transitare il “made in China” diretto nelle nostre case, dazi o non dazi.
E’ la politica commerciale di questo millennio e l’Albania ne è uno snodo fondamentale evidentemente. Non fraintendetemi: l’aeroporto è ancora piccolino per essere l’aeroporto di una capitale europea ma le statistiche dicono che in dieci anni ha triplicato i passeggeri e le compagnie aeree lo giudicano il migliore dell’area balcanica. Insomma quando atterri è un bel biglietto da visita. Dal 2002 poi è intitolato a Madre Teresa di Calcutta che in realtà non era di Calcutta ma proveniva da una famiglia albanese ed era nata e cresciuta in una città che oggi fa parte del neonato Kosovo che dopo una guerra breve e recente con la Serbia è diventato uno Stato autonomo, sebbene non riconosciuto da tutti.
Ma guerre e confini a parte, Madre Teresa resta un orgoglio nazionale albanese, e di questi tempi non è così scontato identificarsi con una che predicava l’amore incondizionato per gli altri, tutti, nessuno escluso. Una che diceva: “La giornata è troppo corta per essere egoisti”. Non esattamente lo spirito del tempo no? Evviva chi ha il coraggio di essere generoso. Chi è d’accordo? Nessuno o quasi.
Meno di sette chilometri e arrivi a Tirana. In albergo. Nonostante il prezzo, trenta euro a notte, ricordate?, l’hotel last minute è carino, pulito, con un piccolo giardino liberty e una vasca che chiamano ottimisticamente piscina; e poi sta a due passi dal centro. A cena siamo finiti in un posto assurdo dove il cameriere non veniva mai e quando è arrivato ci ha detto che non c’era nulla, no non c’era neanche il menu e che se proprio volevamo potevamo farci un pesce al forno indicando delle squame sanguinolente. Ok, grazie, sarà per un’altra vita. Poi siamo andati in un messicano tipo balera con le lucine di Natale sul soffitto, una copia del ritratto di Mao di Andy Warhol sopra il bancone del bar e una maglietta della nazionale albanese incorniciata con tutte le firme autografate sopra il nostro tavolo.
Un posto alla moda. Erano 30 anni ad occhio che non andavo in un ristorante messicano, farlo a Tirana mi ha restituito lo sguardo che dovevo avere ai tempi dell’università. Ho divorato tutto non solo i nachos: le facce, le voci, gli accenti, gli odori e man mano che lo facevo incrociavo quei dati con quello che avevo letto sulla guida comprata poche ore prima, la loro storia, la cultura, le tradizioni. Prima sensazione, inequivocabile: gli albanesi sono gentilissimi e parlano italiano meglio di quanto noi di solito parliamo inglese.
Poi una esigenza: scoprire subito il Blloku, che era il quartiere residenziale dei gerarchi durante la lunghissima dittatura comunista, in quel tempo nelle mappe della città non era nemmeno segnalato tanto era vietato accedervi quindi era inutile sapere come era fatto, poi è caduto il muro a Berlino, e un paio di anni dopo il regime a Tirana, e il Blloku è stato liberato ed occupato, ed è diventato il centro mondano, locali, negozi, bar. E’ in tutte le mappe adesso, una tappa obbligata. Merita? Sì, è tutto vero quel che dicono ma, onestamente, niente di speciale, forse perché, è agosto e i locali migliori si sono trasferiti sulla riviera.
Secondo giorno, dai bunker a Durazzo
Siamo arrivati a Durazzo poco dopo le cinque, col sole ancora alto e un sonno niente male. Dista appena un’ora di auto da Tirana, come Fregene o Ostia dal centro di Roma, ma è una città portuale non piccola da cui partono per esempio i traghetti per l’Italia. La stanchezza che sentivamo era giustificata dal ritmo forsennato con cui avevamo visitato al mattino Tirana.
Già alle 7 in punto al Parco Centrale, scusate ma non ce la faccio a chiamarlo Central Park come quello di New York: una corsa lenta ma lunghissima, oltre un’ora, iniziata con le prime luci dell’alba a illuminare gli edifici, finalmente si vedono i colori, i disegni sgargianti che compaiono all’improvviso su certi palazzi grigi cosa ci vogliono dire? Era presto ma la città era già sveglissima, i tavolini dei caffé del parco pieni ovunque eppure è domenica, che ci fanno tutti al bar a quest’ora?
Alcuni sembrava che fossero scesi da casa in pigiama. Ma la vera folla non era seduta a parlare, era lì, come me, per i viali a saliscendi del parco, soprattutto anziani, pensionati diciamo, vestiti di ogni colore possibile, come se fossero appena usciti da un outlet, erano lì che facevano stretching, pettorali nelle tante zone attrezzate o a volte jogging tenendosi per mano, non so se per romanticismo o per bisogno di equilibrio (ma dare e ricevere equilibrio non è forse una bellissima forma di romanticismo?).
Insomma il parco non sarà Central Park ma è davvero molto bello e curato, i viali hanno la corsia per camminare, quella per correre e una per pedalare; gli alberi e le piante sono giovani, si intuisce che sono lì da poco ma cresceranno e diventerà bellissimo. Per questo è stato difficile smettere di correre, perché non vorresti smettere di scoprirlo anche se per farlo tutto, per girare attorno al lago centrale, ci saranno una decina di chilometri.
Siamo tornati in hotel con intenzioni bellicose: vedere il resto di Tirana, sfidando i 35 gradi e l’umidità feroce, motivo per cui il cielo a Tirana è quasi sempre nuvoloso. Fattibile. Il tour classico in fondo è racchiuso in poche centinaia di metri ed è entusiasmante: il museo storico che va dal neolitico al ‘900 passando per Skanderberg, l’eroe nazionale che in realà si chiamava Giorgio Castriota e che oggi in qualche locale omaggiano con un hamburger chiamato Skanderburger; il boulevard fatto dagli architetti di Mussolini quando pensavamo che l’Albania fosse cosa nostra; e poi la grande moschea e la chiesa ortodossa una accanto all’altra, un segnale non casuale; e la piramide fatiscente fatta costruire dalla figlia di un loro dittatore tremendo, Enver Hoxha, dove i ragazzi adesso giocano a fare lo scivolo sui costoni in attesa che il comune si decida a demolirla quella roba lì, per farci qualcos’altro. Ma soprattutto quello che mi ha colpito è il mega bunker, il bunker numero due.
Di bunker antiatomici ce ne sono più di 170 mila in Albania il che, essendo loro in tutto poco meno di tre milioni, dà l’idea della paranoia in cui sono vissuti fino a venti anni fa. Il bunker 1, poco distante dal centro, era destinato a ospitare il presidente Hoxha e il suo seguito in 124 stanze. Praticamente un hotel. Il bunker 2 invece venne realizzato per ospitare il ministro dell’Interno e il suo staff, è composto di 24 celle collegate da stretti cunicoli, non è mai stato utilizzato come bunker, e oggi è un museo che racconta l’orrore dello stato di polizia albanese con spie ovunque, mance di Stato per i delatori e torture di vario genere. Una roba così soffocante che quando torni in superficie ringrazi anche dell’afa.
Da lì siamo andati al nuovo bazar, che non è niente di speciale forse ma è il luogo ideale per vedere le vite degli altri e sentirsi non turista ma straniero, estraneo eppure senza alcun disagio. Ci siamo inebriati del profumo fortissimo del tabacco che vendono come noi vendiamo l’insalata, abbiamo fatto scorta di mandorle albanesi, che ci sono servite durante il viaggio, e mangiato pesce in un ristorantino qualunque: sto minimizzando. Ci hanno portato credo cinquanta gamberi e altrettanti calamari alla griglia... per 45 euro compreso vino, insalata greca e caffé italiano (il caffé italiano lo trovi ovunque in Albania, e anche di gran marca).
Alle quattro finalmente ci siamo diretti a Durazzo. È la seconda tappa di un viaggio totalmente improvvisato dove la regola è che si prenota giorno per giorno e che ci si sposta sempre. Come? Di solito usando una combinazione di Tripadvisor e Booking, ma a Durazzo sono stato fortunato: a Fiumicino mi ero ricordato che la ditta che mi aveva fatto i lavori a casa due anni fa era composta di tutti albanesi. Ricordo che quando li conobbi prima di affidargli le chiavi di casa ebbi un pensiero che rimossi subito pentendomene: speriamo bene.
E quando se ne andarono, un mese dopo, ne ebbi un altro: che belle persone, e che bravi sono stati. Insomma da Fiumicino avevo chiamato il loro capo, Jimmy, gli avevo detto che stavo partendo e lui senza farmi finire: non puoi non andare a Durazzo, mio genero ha il migliore hotel in città.
Si chiama Dolce Vita ed è meravigliosamente kitsch come piace a tanti, con la piscina davanti al mare, il maxi buffet “all you can eat”, e la discoteca sotto le stelle che fa ballare i ragazzini albanesi in vacanza con i genitori sulle note dei grandi successi della hit parade turca. Il mare sembra quello di Fregene o di Ostia, pulito tendente al verde. Ma la spiaggia è notevole e il tramonto è dal lato giusto. E così quando il sole disegna una striscia arancione su quell’acqua torbida, è difficile resistere all’impulso di nuotare e fermarsi solo per esprimere un desiderio segreto.
Terzo giorno, Valona ma anche Apollonia
Se Durazzo è Ostia, Valona è Cannes. Un po’ esagero ma una croisette così grande e curata me la ricordo solo in Costa Azzurra. Una serie di viali paralleli e concentrici lungo tutto un golfo che ha Valona in mezzo e una serie infinita di spiagge fino alla punta sud, che è il punto dove l’Adriatico diventa Ionio. Otranto è a meno di due ore in motoscafo, in certi giorni la Puglia si vede a occhio nudo dicono.
Alla fine degli anni 90 da qui partivano le lancette dei contrabbandieri di sigarette. Forse il film western era quello. Nel frattempo è cambiato tutto. Valona è una località turistica piuttosto chic. Gli uomini invece delle loro tipiche canottiere nere sulle spalle poderose, passeggiano con buffi borselli a tracolla che dovrebbero dare loro un certo stile, e le donne vestono con cura ma senza civetterie. E almeno le unghie celesti viste ovunque a Tirana qui non ci sono. E poi: se nella capitale e in parte a Durazzo ti colpiva il contrasto fra gli edifici fatiscenti e le auto nuovissime, qui sono nuovi anche i palazzi.
Avranno dieci anni al massimo, deve essere stato un gigantesco cantiere Valona, e rispetto a Tirana c’è una differenza fondamentale: ci sono molto più turisti stranieri. Se a Durazzo erano quasi tutti albanesi in vacanza qui no. I più numerosi provengono dall’Europa dell’Est: Polonia, Ucraina, Repubblica Ceca, Slovacchia; e da quest’anno sono arrivati anche da Svezia, Finlandia e Norvegia, in fondo questo è il mare dell’Italia e della Grecia ma costa un terzo, per ora.
Siamo arrivati a Valona prima del tramonto che in questa stagione è strepitoso perché il sole va a poggiarsi dolcemente in mezzo a due collinette di un isolotto della baia, Sazan, e sembra che le accarezzi come fossero seni... Da Durazzo ci vogliono due ore ma noi ce ne abbiamo messe di più perché a un certo punto abbiamo deviato per scoprire una delle meraviglie del paese: l’antica città di Apollonia. Sorgeva su una collina che sovrasta il mare da cui sale un vento fresco e asciutto che rende sopportabili i quasi 40 gradi. È per questo motivo credo che i greci mandarono un gruppo di corinzi a colonizzarla cacciando gli illiri che l’avevano fondata.
Apollonia divenne presto uno snodo fondamentale della Via Egnatia che collegava l’Oriente alla Puglia e li sorse una prestigiosa Accademia dove si trovava per studiare il giovane Ottaviano quando lo raggiunse la notizia della morte di Giulio Cesare.
Apollonia è bellissima anche per chi come noi di rovine romane ne vede ogni giorno. È stata riscoperta negli anni Venti da un archeologo francese, la cui residenza è oggi un ristorantino con un pergolato notevole dove i turisti si rifugiano a leggere e meditare (per mangiare una ricca insalata meglio la locanda che sta all’ingresso). E quando hai finito di visitare le antiche vestigia, in parte ricostruite, scopri che il meglio deve ancora venire.
Accanto all’uscita c’è un meraviglioso monastero del XIII secolo con al centro una minuscola chiesetta ortodossa di una bellezza commovente, in particolare l’altare a parete fatto di immagini di santi come la pagina di un album di figurine di calciatori.
Il monastero è un museo che presenta la ragguardevole quantità di tesori più o meno importanti trovati ad Apollonia. Alcune cose mi hanno molto colpito. Un elmo macedone, uno scudo di bronzo che mi ha fatto tornare in mente la guerra di Troia e una buffissima statua di marmo di un legislatore in posa in piedi con le gambe incrociate in una postura mai vista per una statua. Sembra che ti voglia dire: dai, vediamo che balla mi devi raccontare ‘sta volta...
E poi i vasi. Centinaia di vasi riccamente decorati. Il più bello era stato ricostruito pezzo per pezzo. Ho contato almeno una cinquantina di frammenti. Ho immaginato l’archeologo raccoglierli con pazienza uno per uno e cercare il posto esatto di ciascuno con un amore infinito. E poi deve averli attaccati e certo sarebbe stato meglio non romperlo quel vaso, ma era troppo bello per lasciare che rimanessero solo cocci per terra. Ricostruire è forse l’atto di amore più grande.
Quarto giorno, il sud fino a Saranda
Il Sud dell’Albania è un altro paese. Eppure l’Albania non è un paese grande, come superficie equivale al Piemonte con una popolazione complessiva, in calo, i giovani se ne vanno appena possono, inferiore a Roma. Ma quando ti lasci alle spalle le eleganti geometrie di Valona, ti incolonni sulla strada statale dove hotel ristoranti, bar e pizzerie ti promettono ad ogni metro tuffi memorabili, dopo Orikum, che è stata una base navale apprezzata dagli Ottomani fino ai sovietici che qui hanno dimenticato un sottomarino dei tempi della Guerra Fredda, dopo Orikum inizi a salire e cambia tutto.
Guidi in mezzo a boschi fittissimi e freschi fra tornanti secchi che ti costringono a usare marce basse e fare un gran baccano in quel silenzio memorabile. È forse il parco più grande dell’Albania, si arriva fin sopra i mille metri, e non c’è una curva senza un banchetto dove contadini vendono barattoli di miele di acacia, confezioni di propoli in gocce dal potere balsamico miracoloso (provato), mazzi di origano e, i più forniti, anche foglie di the secche ripiegate in bustine di plastica trasparenti. Il posto si chiama “passo di Llogara”, ma alcuni lo chiamano anche “passo di Cesare”, perché le truppe di Giulio Cesare qui compirono una impresa militare leggendaria: dopo aver attraversato l’Adriatico, risalirono il passo verso nord piombando a sorpresa su una parte dell’esercito di Pompeo che stava dalle parti di Orikum e che poi venne definitivamente sconfitto a Farsalo, in Grecia, il 9 agosto del 48 avanti Cristo (ma va detto che secondo un archeologo italiano, che sta ancora conducendo ricerche, la battaglia di Orikum fu soprattutto navale come testimonierebbero alcuni reperti trovati in mare).
Messi alle spalle Cesare e i suoi trionfi, la strada finalmente scende e sembra di volare, anzi di planare per come diventano morbide le curve, su una serie infinita di spiagge bellissime, scogliere romantiche, mare turchese, azzurro, blu scuro e a volte chiarissimo, trasparente anche da lontano. E’ la riviera albanese, anche se l’operatore telefonico mi ha appena detto “benvenuto in Grecia” e alla radio adesso sento Radio Norba che mi racconta che nel Salento quest’anno le cose non è che stiano andando benissimo.
Sicuramente i turisti perduti dalla Puglia non sono venuti qui, perché le spiagge sono deserte o quasi, e in mare non c’è una barca. Le calette sono deserte come da noi solo in un lunedì di ottobre forse. Stupisce questa assenza di barche e in particolare di barche a vela con questo vento fantastico, stupisce perché la Grecia è a poche miglia marine e in questo momento i suoi porti sono tutti esauriti, e invece qui evidentemente non sono un popolo di navigatori. E i navigatori non ci vengono.
La riviera è una successione di paesini più meno diroccati, ma non per questo meno affascinanti, tenuti assieme dal turismo come lo scotch sui cartoni. Per dire, il navigatore satellitare del telefonino qui si confonde e impazzisce tra strade vere, finte, interrotte o anche solo immaginate e la app di Google a un certo punto ci ha condotto su una mulattiera a senso unico che finiva nel nulla, circondati da vari animali da fattoria che ci guardavano stralunati.
Eppure in questi paesaggi marziani ci sono autentici gioielli, come Dhermi, dove ci sono un paio di boutique hotel sulla spiaggia e un piccolo stabilimento balneare attorno a un ristorantino ospitato su una palafitta a forma di Yacht, si chiama lo Yacht club, e dopo uno dei bagni più belli della vostra vita qui potrete mangiare del pesce sublime mentre il deejay vi riporta indietro nel tempo con una compilation di dance e funky anni ‘80. Last night a deejay saved my life.
Da lì Saranda è a un passo. E’ considerata la perla d’Albania, sta davanti all’isola greca di Corfù da dove partono in continuazione traghetti veloci per provare il brivido di farsi un bagno nella “misteriosa Albania”, manco fosse Atlantide. Era un borgo marinaro, Saranda, e doveva essere bellissima prima che ogni buco diventasse un ristorante di pesce o una pizzeria, prima che gli abitanti capissero che la loro stanzetta affittata ad un turista può valere oro e quindi all’ingresso del paese ti aspettano al varco a decine sul ciglio della strada che porta al paese col cartello “affitto stanza, rent room”.
E’ come Airbnb, praticamente, ma non è digitale, è una app analogica fatta di persone. Si rivolgono a un turista giovane e con pochi soldi ma in paese ci sono decine di alberghi a picco sul mare con le spiagge private di ciottoli che finiscono nelle acque turchesi.
Eppure l’immagine più bella di questa giornata magnifica non è sul mare ma in montagna, sul “passo di Cesare” o “di Llogara”. Arrivati in cima, ci eravamo fermati finalmente a scattare una foto, il panorama era pazzesco, il cielo e il mare formavano un unico arcobaleno di colori usando tutta la palette degli azzurri e dei blu. Sicuramente lì in mezzo c’è anche “la più perfetta espressione del blu” dei leggendari quadri monocromi di Yves Klein. Io ero lì che ripensavo alle truppe di Giulio Cesare che attraversavano il bosco di nascosto, quando il mio sguardo ha incrociato quello di una vecchina.
Dico vecchina a giudicare dalle rughe e dalla postura, ma era una impressione sbagliata, a guardarla meglio aveva i capelli scuri e compatti, non tinti però, un vestito a fiori sotto il grembiule a quadri da lavoro. Stava nel suo capannino, sul ciglio della strada, dietro una fila di barattoli di miele e sopra ogni barattolo c’era una confezione di propoli, simile alle gocce per il naso. Abbiamo inziato a parlare ma lei l’italiano proprio no.
Allora da qualche parte è spuntato, questo sì, un vecchino, capelli bianchissimi e pure la barba, portata corta, una camicia marrone a righe che sembrava un pigiama, e uno sguardo dolcissimo. Il marito, credo mi abbiano detto a gesti, e poi hanno fatto il segno di alcuni numeri con le mani, stanno insieme da sedici anni, o sessantuno, o hanno due figli? Non lo so, ma che belli erano i loro occhi innamorati lassù, in cima al passo di Llogara, trasmettevano una felicità assoluta. Un amore così, pensavi, potrebbe vincere su tutto, anche su Giulio Cesare.
Quinto giorno, la rimonta di Butrinto e Girocastro
Quando pensi che l’Albania ti abbia già dato tutto in termini di bellezza e calore, arrivi a Butrinto e ti accorgi che non hai capito nulla. Non sei venuto qui per la storia di Tirana o per il mare di Saranda, sei venuto per immergerti in questa antica città prima greca poi romana poi bizantina, veneziana e infine ottomana, e poi sepolta e riscoperta da un architetto italiano, Luigi Ugolini, negli anni Trenta, Butrinto, patrimonio dell’umanità, è un gioiello che leva il fiato anche a chi come noi ha la fortuna di essere nato in mezzo alla storia. Perdetevi nel teatro e nei mosaici concentrici del battistero del VI secolo dopo Cristo. Perdetevi e vi verrà voglia di non tornare più.
Noi in realtà dovevamo tornare. Sulla strada per Argirocastro, che è un altro sito Unesco, ci siamo fermati ad ammirare una delle attrazioni turistiche più richieste, il Blu Eye, l’occhio blu, una pozza gelata alimentata da una fonte sotterranea a un certo punto del fiume che attraversa il “passo di Muzina”. I più coraggiosi vi si tuffano dentro da una balaustra di un paio di metri. C’erano diversi italiani, soprattutto giovani. “Volevamo provare la sensazione di stare all’estero con due soldi”, mi ha detto un romano che era arrivato con la Pandina in traghetto da Durazzo e puntava a tornare da Patrasso, in Grecia.
Alle otto di sera, subito dopo il tramonto, eravamo già ad Argirocastro. Abbiamo dormito in una antica casa ottomana presidiata da un gattone che sembrava quello del romanzo di Bulgakov ma bianco, mangiato carne alla brace su una veranda bevendo un vino rosso “fatto al villaggio” tutt’altro che cattivo, e poi ci siamo goduti quel paesaggio unico, quelle case che sembrano di marzapane, come se un incantesimo le avesse lasciate intatte e immutabili nel tempo.
Al mattino presto, mentre decine di scalpellini erano già al lavoro per restaurare la moschea con i soldi del governo turco, abbiamo fatto in tempo a visitarne una di casa, una delle più famose. Casa Skenduli. Abbiamo pagato un biglietto di ingresso di 100 Lek, ma va bene anche un euro, e il proprietario ci ha svelato ogni segreto di questa abitazione che la sua famiglia possiede da nove generazioni, i primi erano commercianti, vendevano a Bari e Napoli le merci orientali, ci dice, mischiando amabilmente l’italiano, il francese e chissà che altro.
E’ un signore più anziano dei suoi veri anni, uno a cui sono rimasti pochi denti sani e pochissimi sogni realizzabili, ce l’ha con i comunisti di Hoxha, che era nato proprio qui, il bastardo; i comunisti che gli hanno requisito la casa e i terreni per 30 anni, e quando i nuovi governanti gli hanno restituito la casa, i terreni no, “cento ettari!” esclama, se li sono tenuti, per questo mi dice con amarezza che sono sempre gli stessi, anche loro, quelli che governano adesso, “comunisti a 24 carati”.
Quando ci ha portato nella stanza più bella, quella al primo piano dove gli uomini e le donne finalmente si potevano incontrare, divani bassi bianchi e lunghissimi, un camino, una bandiera albanese al muro, gli ho chiesto se potevo fargli una foto. Prima ha detto no, poi ha sorriso, mi ha chiesto un momento, gli ho detto: perché? E lui mi ha detto, non posso farlo con questa camicia, indicando quella che aveva indosso, a righe marroni e beige. Aspetta. E’ tornato dopo un minuto con una sfavillante camicia rossa, rosso vinaccia, rosso Albania. Si è messo in posa sul divano senza togliersi il berretto con la visiera e mi ha guardato dritto negli occhi come a dirmi: me ne hanno fatte di tutti i colori, ma io sono ancora qui, questa è la mia casa, la mia terra.
Epilogo
E il viaggio è praticamente finito qui. Il resto è stata la corsa per arrivare all’aeroporto di Tirana senza neanche il tempo di fermarsi ad ammirare il terzo sito Unesco, Berat, o di fare rafting nei canyon del fiume Osumi. Ma questo resoconto non sarebbe completo se non raccontassi forse la cosa che mi ha colpito più profondamente. Quella che mi dà speranza per il futuro. Questa: la tolleranza palpabile, evidente, fra cristiani e musulmani. Anzi tolleranza non è il termine adatto.
La mia impressione non è che si tollerino, ma che si accettino, che non considerino le loro differenze religiose come qualcosa che in qualche modo può cambiare qualcosa nei loro rapporti. Quando ne ho chiesto conto ad una giovane guida locale ad Argirocastro, lui mi ha detto che la risposta una volta l’aveva data un grande scrittore albanese, no, non quell’Ismail Kadaré che in tanti hanno letto. Si chiamava Eqrem Cabej, ed era un antropologo, un linguista, uno studioso del suo paese che morì a Roma il 13 agosto del 1980, trentotto anni fa. In un italiano buffo, “l’ho imparato ascoltando le vostre canzoni”, la giovane guida mi ha spiegato che secondo Cabej tutti gli albanesi che dicono di essere musulmani in realtà non sono grandi frequentatori delle moschee, e tutti gli albanesi che si professano cristiani non li trovi sempre in chiesa. In ogni caso, “tutti dicono che c’è un solo dio e credono in lui e quindi non c’è motivo di litigare”.
Mi è tornata in mente la conversazione che avevo avuto a Durazzo, all’hotel Dolce Vita, la mattina prima di partire, al bar della piscina. Davanti a me c’era il giovane manager dell’albergo, Bledi Al, che mi cercava di spiegare diverse cose importanti del suo paese. Verso la fine mi ha detto: “Vedi, io sono cristiano, e mia moglie musulmana, figlia di un musulmano molto praticante. Bene, nostro figlio festeggia il Ramadan con i nonni materni e il Natale con i miei genitori. E quando sarà grande deciderà”.
L'ho guardato meglio. E sarà per quel che aveva appena detto, come se fosse la cosa più normale del mondo, ma ho trovato che avesse una certa somiglianza con John Lennon.
Imagine, in Albania.