Ogni sette anni l'Unione europea decide il futuro delle sue finanze e gli Stati membri si impegnano per mesi in estenuanti trattative per limitare i propri contributi alle casse UE e ottenere il più possibile da quanto versano al bilancio comune.
Il 2 maggio la Commissione europea ha presentato la sua proposta per il bilancio 2021-2027: 1.135 miliardi di euro (1.279 miliardi tenendo conto dell'inflazione), pari all'1,11% del Reddito nazionale lordo dell'UE a 27. Uno sforzo finanziario superiore alla tradizionale soglia dell'1% del RNL, per coprire il gap lasciato dalla Brexit, finanziare le nuove spese connesse a sicurezza, migrazione e cambiamento climatico, ed evitare tagli troppo radicali alle politiche che tradizionalmente assorbono più risorse: la Politica Agricola Comune (PAC) e la Politica di Coesione.
Nello scenario prospettato dall'Esecutivo UE, PAC e Coesione subirebbero tagli compresi tra il 5 e il 7% rispetto all'attuale dotazione, mentre Erasmus Plus, LIFE e il Nono Programma quadro per la ricerca e l'innovazione vedrebbero crescere i rispettivi stanziamenti. Per contenere l'aumento dei contributi nazionali alle casse europee, Bruxelles di coprire circa il 10-12% del bilancio UE con nuove risorse proprie, tra cui una parte delle entrate provenienti dal sistema di scambio delle quote di emissioni e una tassa calcolata in base alla quantità di rifiuti non riciclati di imballaggi in plastica di ciascuno Stato membro.
La prospettiva di un maggiore impegno finanziario non piace a molti paesi e rischia di paralizzare il confronto tra i 27. Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha già bocciato la richiesta di aumentare i contributi nazionali, mentre Polonia e Bulgaria non gradiscono la proposta di Bruxelles di collegare l'accesso al finanziamenti UE al rispetto dello Stato di diritto, bollata come un'interferenza politica punitiva nei confronti di singoli paesi.
In questo scenario già complesso si inserisce la scadenza del mandato dell'Europarlamento. Senza un accordo prima delle elezioni europee del maggio 2019, la nuova programmazione partirà sicuramente in ritardo, come accaduto nel settennato attuale.
Nel caso del ciclo 2014-2020 l'accordo politico tra Commissione, Consiglio e Parlamento è stato raggiunto a giugno 2013 e solo a dicembre è arrivata l'adozione formale. Di conseguenza il 2014 è stato un anno completamente perso, per l'adozione dei relativi regolamenti e degli accordi di partenariato tra Bruxelles e i singoli paesi necessari alla gestione dei fondi strutturali e di investimenti europei. I programmi sono partiti effettivamente solo nel 2016 e a fine 2017 a livello UE la quota di fondi impegnati si è limitata al 51% del budget programmato e la spesa rendicontata si è fermata a quota 14%.
Nel caso dell'Italia il ritardo è ancora più accentuato, anche per lo sforzo di adeguamento alle cosiddette 'condizionalità ex ante', i requisiti previsti a livello UE per l'utilizzo dei fondi, che vanno dall'adeguatezza delle norme in materia di appalti pubblici fino all'adozione di strategie per la specializzazione intelligente a livello nazionale e delle regioni.
Secondo i dati della Commissione in Italia a fine 2017 risultava allocato il 43% del budget, ma la spesa rendicontata era ferma all'8%. C'è molto lavorare, ma ci sono le condizioni per centrare gli obiettivi di medio termine fissati da Bruxelles ed evitare il disimpegno dei fondi, ha assicurato nei giorni scorsi il direttore dell'Agenzia per la Coesione territoriale Maria Ludovica Agrò intervenendo a un convegno sulla Politica di Coesione organizzato dalla Rappresentanza in Italia della Commissione europea. Per la prossima programmazione dei fondi europei, sarebbe un passo in avanti non partire in salita.