L’alta cucina è come un concerto di musica classica. Il paragone vi sembrerà banale, ma facciamo insieme caso al perché. Perché una composizione musicale è complicata e richiede studio, rigore e numerosissime prove. Non basta l’idea per la partitura e al momento dell’esecuzione, strumentisti e direttore devono essere affiatati, conoscersi e stare sul palco con grande professionalità.
Questo ho provato durante il pranzo a “il Pagliaccio” di Roma. Ho provato la sensazione di assistere ad una prima alla Scala di Milano, il concerto di un’orchestra in piena empatia, con esperienza consolidata, con passione mai sopita.
Posso affermare con determinazione che il pranzo perfetto che ho vissuto, non è stato il risultato di un uomo solo, lo chef, ma la vera staffetta della brigata di cucina con quella di sala, l’armonia, lo stesso cuore pulsante.
Non mi sono mai occupata di critica gastronomica, il mio lavoro l’ho sempre definito al contrario: cronaca gastronomica. Poter riferire qualcosa che vale la pena di sapere, per condividere con chi ha la stessa sensibilità, quello che c’è di buono e interessante nel mondo del cibo.
Qui è la prima volta che vedo davvero il connubio di sala e cucina e credo che la sala abbia dato allo chef Anthony Genovese una marcia in più, se mai fosse possibile.
Erano anni, a questo punto devo dire troppi, che non varcavo questa soglia in via dei Banchi Vecchi, nella mia Roma più bella.
Non so voi, ma io lo so riconosco subito un posto dove starò bene, dall’accoglienza alla porta. Da vent’anni, come tanti colleghi, mangiare per me è un lavoro, una mania, una ragione di vita. Street Food, Trattorie, Stellati, Ristoranti d’Albergo, lo capisci dalla luce, dall’atmosfera, ma soprattutto dal sorriso del cameriere che ti invita ad entrare e ti accompagna al tavolo come andrà a finire.
Matteo Zappile restaurant manager de il Pagliaccio, ha un curriculum di tutto rispetto, ma più che il curriculum il suo è proprio uno stile innato, impeccabile e amichevole, mi ricorda tantissimo Umberto Giraudo negli inizi luminosi de La Pergola di Heinz Beck.
Matteo, classe 1984, ha iniziato a lavorare nel mondo della ristorazione già a 14 anni, la sua prima esperienza a Cortina all’Hotel Belleuve gli ha poi aperto la strada a una serie di viaggi tra l’Italia e l’Inghilterra. Approdato a Ravello, ha fatto la sua prima esperienza in un ristorante due stelle Michelin, il Rossellinis di Palazzo Sasso per arrivare poi da Anthony Genovese a il Pagliaccio di Roma dove lavora adesso.
Nel 2017 è stato nominato “Miglior Sommelier d’Italia” dalla Guida L’Espresso, mentre già nel 2014 aveva ottenuto il riconoscimento di “Miglior Sommelier d’Italia attento alle birre” per Gambero Rosso e quello per la “Migliore Carta delle Bollicine d’Italia” sempre per L’Espresso.
Qui a Il Pagliaccio Matteo è il braccio destro di Anthony Genovese che ho trovato in una forma smagliante e completamente rinnovata.
Forse l’ho frequentato poco questo Chef e lo avevo sempre pensato un po’ timido e riservato, mentre qui l’ho visto sorridente e luminoso e in uno stato di grazia invidiabile.
Da circa un anno e mezzo il ristorante il Pagliaccio è stato completamente ripensato.
Richiedendo all’ufficio stampa il nuovo comunicato, scopro che l’immagine che ispira tutto è il Circo, sì proprio la casa natia della figura del Pagliaccio.
L’intento è ben riuscito, perché il divertimento a tavola è garantito. E l’idea che, come nel circo il cerchio rappresenta il ritorno alle origini, qui ho visto il ritorno di Anthony a sé stesso, al suo io profondo, curioso e viaggiatore mai sazio.
Un Circo minimalista però, dove tutto ruota intorno al dettaglio del sapore, dell’accostamento, dei colori che si possono trovare nel piatto.
Il circo che c’è dentro di noi insomma e del nostro vivere itinerante.
Tutti sanno dei lunghi viaggi di Anthony Genovese, della sua Francia terra d’origine per una famiglia calabrese al 100% però, e dopo l'Ecole Hotelière de Nice, della sua esperienza in vari ristoranti stellati francesi (a Monaco, Marsiglia e Nizza). L’arrivo dunque a Firenze, all'Enoteca Pinchiorri*** e poi il girovagare in oriente, fra Giappone, Malesia e Thailandia. Quindi ancora Italia, a Ravello all’Hotel Palazzo Sasso, al ristorante Rossellinis, dove ottiene la sua prima Stella Michelin. Da Ravello a Roma il passo è breve, nel 2003 inizia la sua avventura nella capitale, dove la sua creazione prende forma: Il Pagliaccio, oggi 2 Stelle Michelin.
A cinquant’anni oggi, Genovese afferma una cucina matura e intelligente che mette insieme tutte le sue esperienze.
Il ristorante è progettato nei suoi dettagli interni dall’architetto Anton Cristell. I tavoli con base di ferro e legno di pero non vestono più le tovaglie, ogni ceramica e piatto di portata è scelto per una sua caratteristica peculiare, c’è uno stile giapponese che malgrado tutto spicca più degli altri, una luce soffusa e morbida.
Mi sono lasciata consigliare e trasportare da Matteo nel mio menu e ho avuto l’impressione vera del viaggio.
Faccio sempre così, nei ristoranti cerco di non ordinare ma di lasciarmi guidare e vi assicuro che questo è davvero l’unico modo per mettersi in ascolto e capire cosa un ristorante abbia voglia di dire.
Siamo ospiti e non lo dobbiamo dimenticare mai.
La carta de Il Pagliaccio oggi è cortissima, con soli tre piatti per portata che sono l’apice e la sintesi estrema della cucina di Genovese.
Sono tre, invece, i menù degustazione del Pagliaccio: Circus (10 portate), Charivari (8 portate), Intermezzo (3 portate - solo a pranzo). I piatti e l’ordine delle portate, per ognuno dei tre, vengono stabiliti al momento, a seconda del percorso in cui lo chef e Matteo desiderano guidare i loro ospiti, costruito sulla base delle esigenze e delle personalità dei commensali.
Non vi racconterò i piatti nel dettaglio, perché non avrebbe senso.
Per me ogni portata è stata motivo di meditazione e i vini e l’olio extra vergine abbinati e serviti con grande maestria da Zappile, mi hanno riconciliata con percorsi perfettamente armonici davvero possibili.
Percorsi tra cucine diverse, ingredienti di tutto il mondo, dove la ricerca del meglio, scansa la retorica del kilometro zero.
Siamo sicuramente di fronte al Ristorante migliore della Capitale, un luogo unico nel suo genere per riflettere sulle possibilità di una nuova ristorazione, fatta di stile ma soprattutto di fiducia e di abbandono da parte del commensale, che davanti a tanta capacità espressiva deve solo lasciarci condurre.