Nell’ultimo decennio gli Stati Uniti hanno considerevolmente aumentato la produzione di petrolio e gas, grazie allo sfruttamento di giacimenti non convenzionali. Si tratta di idrocarburi chimicamente identici a quelli convenzionali, ma imprigionati in strutture argillose (scisti, in inglese shale) che si trovano tipicamente a 1–3 km di profondità nel sottosuolo. Tecnicamente si chiamano tight oil e tight gas (letteralmente petrolio e gas «imprigionati»), ma è invalso l’uso di chiamarli shale oil e shale gas, a causa della loro origine geologica. Qui useremo quest’ultima dizione, largamente di usa, anche se abbiamo già spiegato che lo shale oil è, rigorosamente parlando, un altro tipo di petrolio non convenzionale.
Se negli scisti argillosi si trivella un classico pozzo verticale, non si ottiene nulla. Per estrarre gli idrocarburi «imprigionati» si deve utilizzare una tecnica molto complessa, denominata fracking (da hydraulic fracturing, fratturazione idraulica).
Sottoterra si trivellano pozzi orizzontali, lunghi anche diversi kilometri, nei quali vengono fatte brillare cariche esplosive. Poi vi si inietta acqua ad alta pressione, mescolata a sabbia e additivi chimici. Questo permette di fratturare le rocce argillose, da cui possono così liberarsi il petrolio o il gas, che salgono in superficie attraverso il pozzo.
Il petrolio e il gas di scisto tight hanno permesso agli Stati Uniti di ridurre considerevolmente la propria dipendenza dalle importazioni, ma al prezzo di un forte impatto ambientale nelle zone interessate.
I rischi di queste estrazioni infatti sono molteplici. La non perfetta tenuta delle tubazioni nei pozzi può causare l’inquinamento delle falde acquifere, che tipicamente si trovano a metà strada tra i giacimenti e la superficie; inoltre il metano, che è un potente gas serra, può trovare vie di fuga in atmosfera.
Ogni pozzo occupa in media 3,6 ettari di territorio e richiede non soltanto enormi quantità di acqua (da 10 a 30 milioni di litri), ma anche di sabbia. Questa deve essere estratta, raffinata, caricata e trasportata su treni (100 carri ferroviari per ogni pozzo), accumulata in depositi e infine trasportata con automezzi fino al punto di utilizzo.
Si stima che negli Usa nel 2015 siano stati usati 25 milioni di tonnellate di sabbia, il cui prezzo di conseguenza è fortemente aumentato. Inoltre i pozzi di fracking si prosciugano in fretta, perciò è necessario trivellare in continuazione per mantenere la produttività di un giacimento.
Alla fine del 2015 il numero di pozzi attivi negli Stati Uniti ha raggiunto la cifra astronomica di 1.700.000. Chiaramente si tratta di una tecnologia applicabile soltanto in zone a bassa densità abitativa, che sono diffuse in Nordamerica ma alquanto rare in Europa.
Uno degli impatti ambientali più preoccupanti è legato all’acqua utilizzata per il fracking, che risale poi in superficie e deve essere smaltita come rifiuto nocivo, in quanto contaminata. L’unica soluzione praticabile è trasportarla con autobotti in altre zone, dove sarà depositata nel sottosuolo.
Purtroppo questa attività può stimolare faglie sismiche sotterranee e indurre terremoti. Nel 2007 in Oklahoma c’era stato un solo terremoto, mentre nel 2015 ve ne sono stati oltre 900; per la maggior parte sono stati lievi, ma alcuni hanno provocato danni. In pratica, una zona virtualmente asismica è stata trasformata in pochi anni nel territorio più sismico degli Stati Uniti, proprio a causa dello smaltimento dei liquidi usati per l’estrazione di idrocarburi di scisto nelle profondità del sottosuolo.
Il consumo di enormi quantità di acqua è anche uno degli ostacoli maggiori allo sviluppo del fracking. In Cina, per esempio, promettenti giacimenti si trovano in zone molto aride e risultano di fatto non sfruttabili.
Il fracking è praticato estensivamente soltanto negli Stati Uniti (dove però è stato bandito negli stati di New York e del Vermont). In sole due altre nazioni, Canada e Cina, lo si utilizza oggi per la produzione commerciale di petrolio e gas, ma per ora su scala molto ridotta.
Attualmente, comunque, anche negli Stati Uniti le prospettive dell’industria del petrolio e del gas da scisto sono incerte: la produzione dei due maggiori giacimenti è in calo dal 2014 e molte aziende del settore sono fallite. Infatti, sono state incapaci di sopravvivere alla concorrenza di un petrolio convenzionale che costa meno di 60 dollari al barile. Questa situazione è stata imposta dall’Arabia Saudita, che ha «allagato» il mercato mondiale con il proprio petrolio a basso costo, per stroncare tutti i concorrenti (in primis proprio il petrolio da scisto Usa) e ribadire la propria cruciale influenza sullo scacchiere internazionale.