Più della metà delle centrali a carbone nell’Unione europea sono in perdita e quasi tutte, entro il 2030, entreranno in una “spirale di morte”. Lo scrive il Financial Times che cita uno studio di Carbon Tracker, think-tank sul clima, che ha analizzato la situazione di oltre 600 impianti del Vecchio continente.
Secondo l’analisi si potrebbero evitare 22 miliardi di perdite se nel prossimo decennio si riuscisse a uscire dal carbone. Lo studio arriva a pochi giorni dal summit sul clima fortemente voluto dal presidente francese Emmanuel Macron, in programma martedì prossimo, a Parigi che punta a implementare l’accordo di due anni fa sempre nella capitale francese.
Secondo Ft, tuttavia, c’è una “forte spaccatura all’interno dell’Europa su quanto veloce debba essere l’uscita dal carbone perché ogni Paese vuole bilanciare la lotta al cambiamento climatico con le esigenze di sicurezza energetica”. Le centrali a carbone, scrive il quotidiano finanziario, sono la spina dorsale del sistema elettrico in molti Paesi europei, ma stanno affrontando crescenti difficoltà economiche derivanti dalle normative introdotte per ridurre le emissioni e dall'aumento della concorrenza delle fonti rinnovabili.
Circa il 54% degli impianti a carbone europei sono già in perdita, spiega l’analisi di Carbon Tracker, e tale percentuale salirà al 97% entro il 2030 se i governi europei adotteranno le azioni necessarie per centrare i target ambientali previsti dall’accordo di Parigi.
A breve sarà più economico costruire nuovi impianti eolici o solari onshore (a terra, ndr) piuttosto che gestire le centrali a carbone esistenti. La riduzione dei costi delle tecnologie rinnovabili si combina con più stringenti standard per l’inquinamento atmosferico che scatteranno nel 2021, insieme all’aumento del carbon price (il costo per le emissioni di CO2).
“I cambiamenti economici hanno posto l’industria europea del carbone in una spirale di morte”, evidenzia Matt Gray, analista di Carbon Tracker e co-autore del report. Le utility non possono fare molto per fermare questo processo. Due le strade che hanno davanti: abbandonare questo combustibile o fare pressione sui governi per salvarsi in qualche modo. Solo il 27% della capacità elettrica da carbone sarà chiusa entro il 2030, sottolinea lo studio di Carbon Tracker. Molte società stanno mantenendo le centrali seppur in perdita per tutta una serie di ragioni inclusa la speranza di prezzi dell’energia più alti e la riluttanza ad accettare i costi di chiusura e bonifica. L’intenzione politica di creare posti di lavori nel settore elettrico e nell’estrazione del carbone, in alcuni casi, è un altro fattore. Le proposte per una maggiore diffusione delle rinnovabili hanno acceso il dibattito nel Parlamento europeo tra coloro che sono a favore di una rapida uscita dal carbone e altri che vorrebbero una transizione più lenta.
Diversi stati dell’Europa occidentale incluse Gran Bretagna, Danimarca e Olanda si sono già impegnate per chiudere le loro centrali a carbone entro il 2030 o addirittura prima. Contrari invece Polonia e gli altri Paesi dell’Europa centrale che sono altamente dipendenti dal questo tipo di combustibile fossile.
La Germania, che conta il maggior numero di centrali a carbone in Europa, ricava da esse circa il 40% della sua capacità elettrica e si trova in mezzo ai due campi. La data di uscita dalla generazione a carbone è stato uno dei motivi che ha fatto naufragare la coalizione ‘Giamaica’ aprendo di nuovo le porte all’alleanza tra Cdu e Spd.
Molte utility europee come Enel e la svedese Vattenfall hanno ridotto le loro attività a carbone ma spesso è accaduto che invece di chiudere gli impianti li hanno venduti. Eph, azienda ceca, è stata tra gli acquirenti più attivi, sfruttando i prezzi in calo e costituendo un portafoglio di impianti a gas e a carbone in giro per l’Europa. Daniel Kretinsky, il miliardario ceco che controlla Eph, ha detto a Ft che “almeno per i prossimi 10, probabilmente 20 anni” l’Europa avrà bisogno ancora dei combustibili fossili. Segnali contrastanti sul futuro del carbone arrivano dalla Spagna il cui governo lo scorso mese ha fermato Iberdrola, la più grande utility del Paese, che voleva chiudere le sue due ultime centrali a carbone per motivi di sicurezza energetica.
Secondo Gray tali preoccupazioni sono infondate perché il minor costo delle rinnovabili, il miglioramento tecnologico dello stoccaggio delle batterie e l’aumento dell’efficienza energetica dovrebbe permettere di “mantenere le lampadine accese anche senza il carbone”. “Quelle utility che vogliono continuare a utilizzare i loro impianti a carbone oltre il 2030 stanno mettendo i loro beni in rotta di collisione con le tendenze in atto” nel mondo, conclude il rapporto.