Da almeno un anno si susseguono in tutto il mondo le iniziative per sensibilizzare le popolazioni ai gravi problemi ambientali posti dall’uso della plastica derivata dal petrolio per produrre oggetti usati una volta e subito buttati via quali bottiglie, sacchetti, bicchieri, piatti, cassette per il cibo e persino i bastoncini per la pulizia delle orecchie che ogni anno i volontari di Legambiente raccolgono a migliaia nei tratti di costa prossimi alle foci dei fiumi.
Due giorni il nuovo ministro dell'Ambiente ha proposto dunque di vietare le bottiglie e le confezioni di plastica nelle decine di migliaia di edifici pubblici in tutta Italia associando di fatto il consumo della plastica che fa male all’ambiente a quello delle sigarette che fanno male alla salute.
Il motivo per cui, nel 2018, l’umanità non si sia ancora liberata delle plastiche non biodegradabili ottenute dal petrolio nella cifra monstre di 300 milioni di tonnellate all’anno, è molto semplice: a produrre la plastica è la stessa industria petrolchimica che si occupa della raffinazione del petrolio per produrre combustibili.
Questo fa sì che quando il prezzo del petrolio è basso si assiste ad un boom delle produzioni petrolchimiche tout-court che vanno in parte a compensare il calo delle entrate legate alla vendita dei combustibili; mentre, quando il prezzo del petrolio è elevato, la disponibilità pressoché illimitata di petrolio consente di continuare le produzioni petrolchimiche compensando le perdite della petrolchimicha con le maggiori entrate legate alla vendita dei combustibili.
Per oltre 40 anni numeroe nuove aziende hanno provato a rompere questo loop avviando la produzione di bioplastiche, ovvero di plastiche ottenute dale risorse vegetali. Quelle che sono sopravvissute si contano sulle dita di una mano.
Ma adesso questa situazione cambierà rapidamente. E nel giro di un decennio l’industria della petroplastica subirà un crollo delle produzioni simile a quello registrato dalle aziende del termoelettrico con il boom mondiale di eolico e fotovoltaico.
Per due ragioni. Una economica, e l’altra tecnologica.
Da un lato, le nuove aziende della bioplastica hanno compreso che invece di produrre plastiche a basso valore aggiunto come quelle usate per produrre i sacchetti, devono produrre plastiche ad alte prestazioni come quelle ritrovate nei cosmetici e nei prodotti del personal care. Ha iniziato a farlo proprio un’azienda italiana che in questi giorni mette in funzione i nuovi bioreattori alle porte di Bologna con cui produrrà le prime 1000 tonnellate all’anno di microbeads in PHA (una bioplastica completamente biodegradabile).
Il valore (e dunque il prezzo) molto più alto di queste produzioni consente da un lato di remunerare molto più rapidamente gli investimenti, e dall’altro riduce di molto il gap di prezzo con la petroplastica concorrente.
L’altra ragione è tecnologica: i chimici nel corso degli ultimi dieci anni hanno sviluppato i nuovi processi (catalitici e biocatalitici) tanto per rendere disponibili zuccheri dalla biomassa lignocellulosica, che per convertirli con livelli di efficienza finora sconosciuti tanto in nuovi precursori delle nuove bioplastiche come i terpeni, che in bioplastiche ad altissimo valore aggiunto: racconteremo qui, ad esempio, cosa sta accadendo con il PEF, un’altra bioplastica, che sostituirà tanto il PET delle bottiglie che, attraverso la stampa in 3D, innumerevoli oggetti in polipropilene e in altri polimeri derivati dal petrolio.