Il caro petrolio torna a far parlare di sé. Il Financial Times si chiede chi sono i vincitori e chi i perdenti con un prezzo a 80 dollari mentre Repubblica paventa uno shock energetico. Ricapitolando, le quotazioni del greggio sono schizzate da un po’ di tempo a questa parte, basti pensare che da maggio dell’anno scorso il Brent ha registrato un aumento del 50%: esattamente un anno fa si attestava intorno ai 50 dollari al barile, oggi veleggia, come detto, sugli 80 dollari. Perché tale incremento? Le motivazioni sono prevalentemente geopolitiche: le nuove sanzioni statunitensi all’Iran potrebbero togliere dal mercato, come scrive Federico Rampini su Repubblica, “dai 400.000 a un milione di barili al giorno, sul totale dei 2,4 milioni che Teheran è tornata a produrre”. Dato in linea con quanto stimato dagli analisti interpellati da Platts che si aspettano un impatto sull’export fino a un milione di barili al giorno in meno. Secondo Bloomberg le sanzioni americane all’Iran potrebbero far aumentare il prezzo del greggio, quest’anno, tra un minimo di 2 dollari a un massimo di 10.
C’è poi la questione venezuelana, dove la rielezione di Maduro, non riconosciuta dagli Stati Uniti, espone il paese, anche in questo caso, a nuove sanzioni. Da considerare tuttavia che la produzione di petrolio venezuelana è scesa da parecchio tempo a causa delle condizioni disastrate in cui si trova il Paese. Di conseguenza il venire meno del greggio venezuelano avrebbe un impatto sicuramente meno rilevante rispetto a quello iraniano. Ad aggravare il tutto, ci sono poi le tensioni mediorientali che coinvolgono molti paesi produttori.
Altro motivo che ha contribuito all’impennata delle quotazioni, questa volta intenzionale, è la stabilità trovata tra l’Arabia Saudita e la Russia, rispettivi leader dei paesi produttori Opec e non Opec. Era il 20 gennaio 2016 quando il prezzo del Wti (West Texas Intermediate, il petrolio utilizzato come benchmark negli Usa) scese sotto i 27 dollari mentre il Brent (il petrolio del Mare del Nord) galleggiava poco sopra quella quota. Da allora molte cose sono cambiate prima fra tutte il taglio deciso dai paesi produttori (gennaio 2017) di 1,8 milioni di barili al giorno. Da quel momento, complice anche la ripresa economica globale, le quotazioni hanno ricominciato a salire.
A beneficiarne, come scrive Ft, sono le compagnie petrolifere che vendono l’oro nero e hanno visto crescere i propri utili e l’andamento delle azioni in Borsa. Ci sono poi i paesi produttori, in primis proprio l’Arabia Saudita che ha quasi dimezzato il proprio deficit di bilancio dal 12,8% del 2016 al 7% atteso quest’anno.
Ma tutta questa situazione potrebbe far contenta anche la Bce. Il presidente Usa Donald Trump avrebbe fatto, senza volerlo, un favore al presidente dell’Eurotower Mario Draghi. I prezzi dell’energia infatti hanno un impatto sull’inflazione. E un aumento delle quotazioni del greggio che duri nel tempo potrebbe portare i prezzi al consumo dell’Eurozona vicini a quel 2%, obiettivo inseguito da tempo dall’Istituto di Francoforte.
A perdere, invece, sono le compagnie aeree, i consumatori che pagano di più per fare il pieno alle loro auto e l’industria navale. Per le aviolinee Il carburante rappresenta un terzo dei loro costi. Tutto questo, dicono gli analisti, si rifletterà sui consumatori che vedranno crescere i prezzi dei biglietti. American Airlines, ad esempio, ha visto un calo del 15% del titolo in Borsa nel primo trimestre dell’anno e ha dovuto tagliare le stime sull’utile 2018.