Il fatto che l’Opec voglia produrre meno petrolio a prima vista sembra un paradosso. Ma da diverso tempo il cartello dei paesi produttori spinge per una riduzione di greggio da vendere sul mercato. La questione parte lontano. Fino a metà del 2014 i prezzi del petrolio si aggiravano sui 100 dollari al barile, da luglio di quell’anno iniziò una brusca discesa. Il motivo è semplice e va cercato nella legge base dell’economia quella della domanda e dell’offerta. Il mondo - reduce dalla grande crisi economica e finanziaria, partita negli Stati Uniti, arrivata in Europa, con effetti, limitati ma presenti, anche nelle fiorenti economie emergenti (Cina in primis) – aveva meno bisogno di energia. La domanda quindi è stata ed è tuttora inferiore a quella della fine del decennio precedente mentre la produzione, e quindi l’offerta, si era mantenuta agli stessi livelli. La conseguenza è stata quella di un repentino calo dei prezzi che sono arrivati nel 2016 a quotazioni inferiori ai 30 dollari, livelli minimi da 13 anni.
Gli effetti della produzione di 'shale oil'
Oltre alla crisi economica c’è però un’altra causa che ha provocato il calo dei prezzi: la produzione di 'shale oil' negli Stati Uniti. Il petrolio ottenuto con questa tecnica (fratturazione delle rocce con acqua e sabbia) ha un infatti costo di produzione inferiore (40-45 dollari al barile con picchi al ribasso di 30 dollari) rispetto a quello tradizionale. Negli ultimi anni quindi il mercato globale, già in crisi, è stato inondato da una quantità eccessiva di greggio. Come detto, i prezzi dal 2016 sono crollati con grave danno per chi vende il petrolio (compagnie e Stati) ma anche, paradossalmente, per l’economia. Sì perché c’è un rapporto molto stretto tra inflazione e prezzi dell’energia. Basti pensare a quello che accadde in Italia negli anni ’70: prezzi del e petrolio e prezzi al consumo alle stelle. L’inflazione è anche il ‘nemico’ contro il quale stanno combattendo le banche centrali (Bce e Fed). Mario Draghi e Janet Yellen vogliono riportarla stabilmente intorno al 2% per stabilizzare l’economia. Ecco quindi che governi, istituzioni e banche centrali si aspettino un aiuto in questa battaglia dai prezzi dell’energia.
Tagli estesi per altri nove mesi?
Dopo tanto discutere alla fine dello scorso anno i Paesi aderenti all’Opec seguiti pochi giorni dopo da quelli produttori che non ne fanno parte, Russia in testa (Azerbaijan, Bahrain, Brunei, Guinea Equatoriale, Kazakhstan, Malesia, Messico, Oman, Russia, Sudan, Sud Sudan) hanno deciso di tagliare la produzione di 1,8 milioni di barili di petrolio al giorno. Inizialmente questa decisione ha provocato un rialzo dei prezzi all’inizio del 2017. Tuttavia nei mesi a seguire e per diversi motivi (molti paesi hanno fatto i ‘furbi’ non riducendo la produzione), le quotazioni sono calate di nuovo con grande panico di analisti, investitori e istituzioni preoccupati del fatto che nemmeno una decisione drastica come quella di togliere quasi 2 milioni di barili dal mercato fosse riuscita a stabilizzare il mercato. Proprio per questo il 25 maggio i membri Opec e gli altri undici paesi hanno deciso un’estensione dei tagli. I 24 Paesi produttori coinvolti (compresa la Guinea Equatoriale entrata a far parte dell’Opec) hanno deciso di limitare le estrazioni fino al 31 marzo 2018. Oggi il segretario generale dell’Opec Mohammed Barkindo ha detto che “il mercato si sta ribilanciando ma che bisogna continuare negli sforzi”. Tradotto: domanda e offerta si stanno riequilibrando ma probabilmente i tagli saranno estesi per altri nove mesi (quindi fino alla fine del 2018), sostengono fonti attendibili interne all’organizzazione. La risposta l’avremo il 30 novembre quando si riunirà ufficialmente l’Opec per prendere una decisione.