A marzo in Italia si sono immatricolate 28 mila auto. Nello stesso mese del 2019 erano state oltre 190 mila. Il crollo è di quasi il 90%. È facile aspettarsi un risultato identico per aprile. A ipotizzare una potenziale riapertura delle attività per la metà di maggio, per la fine dell’anno è possibile prevedere una chiusura del mercato a circa 1,2 milioni di unità, di cui solo 670 mila legate a privati e famiglie. È difficile aspettarsi di più: bisognerà rimettere in moto la fiducia dei consumatori e soprattutto la disponibilità economica all'acquisto di un bene, come l'auto, che al momento non sembra prioritario.
Il calo delle immatricolazioni al 31 dicembre potrebbe essere dunque di circa il 40%. Un taglio che colpirebbe maggiormente i cosiddetti marchi “generalisti” legati a una clientela più sensibile alle variazioni di reddito e patrimonio e meno quelli “premium”. Numeri che necessitano ovviamente di continue revisioni (speriamo positive), per inseguire una situazione fluida e in continua evoluzione.
Il business è destinato dunque a diventare insostenibile per tanti. Inutile nascondersi: molte delle circa 1.400 concessionarie italiane saranno costrette a chiudere. Per dare un riferimento, nel periodo dal 2007 al 2019 quando il mercato perse nel suo complesso “solo” il 23%, le persone che persero lavoro furono circa 30 mila addetti (fonte, Federauto). Oggi l’ipotesi di decremento è quasi il doppio, ognuno faccia i suoi conti. Ma è ovviamente tutto il sistema a tremare visto che in Italia l’automotive vale il 10% del pil e produce 80 miliardi di euro l’anno di gettito fiscale (fonte Unrae).
Cosa fare? Da più parti si richiedono incentivi: estendere quelli esistenti (Ecobonus), oggi destinati ai veicoli più ecologici, elettriche e ibride ricaricabili plug-in, anche a Euro 6 benzina e diesel. La proposta risponderebbe anche la necessità di svecchiare un parco auto di oltre 11 anni, con punte di più di 14 anni per le auto a benzina (fonte Aci). Un dato preoccupante in termini ambientali e di sicurezza stradale.
In particolare, il settore chiede aiuti economici di mila euro (con rottamazione) sulle auto piccole e compatte con emissioni tra i 65 e i 95 grammi di CO2 per chilometro, attualmente fuori del regime dell’Ecobonus. Un intervento è auspicato anche per i veicoli aziendali, con il riallineamento fiscale agli standard degli altri Paesi europei: aumento del costo massimo deducibile fino a 50 mila euro, della quota ammortizzabile al 100% e della detraibilità Iva per aziende e liberi professionisti fino al 100%. Gli interventi potrebbero valere tra le 100 e le 200 mila unità in più (a seconda della data di riavvio delle attività), con un costo per lo Stato di circa 3 miliardi di euro.
Proposte condivisibili, in particolare per le auto in stock, che potrebbero salvare l'anno in corso. L'incentivo è però una misura temporanea, non strutturale, che rischia di non risolvere un problema, che inevitabilmente avrà ripercussioni anche in futuro. La debolezza del sistema non si supera solo con qualche miliardo di aiuto nell'acquisto.
Forse oggi più che mai bisogna guardare al futuro: la crisi è l'occasione per accelerare una transizione energetica che da noi, e i dati di vendita delle auto elettriche lo dimostrano, è ancora solo sulla linea di partenza. Ben vengano gli incentivi ma anche grandi investimenti nella riconversione energetica del nostro Paese e industriale del settore nella direzione di elettrificazione e idrogeno, accompagnata da un piano serio di realizzazione d’infrastrutture pubbliche di ricarica e rifornimento dello stesso idrogeno.
Perché, come ha detto nei mesi scorsi Herbert Diess, numero uno del gruppo di Volkswagen, “dobbiamo accelerare la trasformazione per evitare la stessa sorte di Nokia, che ha perso il dominio nel mercato dei cellulari a favore di Apple e Samsung”. E se lo dice lui.
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