Corte Tegge, poco distante da Reggio Emilia, lo stabilimento dove si estraggono dalle bucce dell’uva gli antociani da anni dà lavoro a decine di persone. La semplice ed elegante tecnologia estrattiva utilizzata oggi consente di ottenere dalle bucce dell’uva rossa in meno di 6 ore dalla raccolta dell’uva nelle campagne circostanti la preziosa enocianina (additivo E163: “estratto di bucce d’uva”) che poi colorerà di rosso svariati prodotti alimentari e bevande, al posto dei coloranti sintetici ottenuti dal catrame da tempo associati alla Sindrome da deficit di attenzione e iperattività dei bambini.
Poco più in là, a Castel San Pietro Terme, proseguono i lavori del nuovo stabilimento dove fra pochi mesi quantità industriali di glicerina verranno convertite per fermentazione nella bioplastica PHA: un bio-poliestere con cui fra l’altro sostituire le microperle di plastica sintetica contenute in rossetti e in decine di altri cosmetici ormai fuori legge negli USA quali agenti dell’inquinamento invisibile dei mari (vengono mangiate dai pesci con gravi danni all’ecosistema).
Più a Sud, alle porte di Caserta, ormai da quasi tre anni un’altra azienda converte frazioni cellulosiche di varia origine in prezioso acido levulinico, un intermedio utilizzato fra l’altro nella produzione di plastiche biodegradabili e fertilizzanti.
In Sicilia, prosegue a Chiaramonte Gulfi per la seconda stagione olearia l’estrazione dei biofenoli contenuti nelle acque di vegetazione sottoprodotto della molitura delle olive. Il frantoio è divenuto a zero emissioni, mentre l’azienda della bioeconomia ne ottiene gli antiossidanti più potenti ad oggi conosciuti, già utilizzati in prodotti nutraceutici, alimentari e cosmetici.
Esempi di bioeconomia: ne siamo i pionieri, ma cos'è?
Sono solo alcuni esempi italiani della bioeconomia: quella che produce i molteplici beni e materiali necessari ai vari comparti dell’economia non più dal petrolio, ma dalle risorse biologiche; e in particolare dalla biomassa non destinata all’alimentazione come gli scarti lignocellulosici, quelli agricoli, e quelli dell’industria alimentare.
Quasi 40 anni fa, ai tempi della Montedison-Ferruzzi, l’Italia ne fu fra i pionieri: non è certo un caso che sia sorto in Italia il primo impianto industriale di successo per la produzione di bioplastica ricavata dall’amido dal mais poi utilizzata, ad esempio, per la produzione di sacchetti biodegradabili al posto di quelli in polietilene.
Da allora, i chimici di tutto il mondo hanno sviluppato processi interamente puliti (altamenti selettivi) e a basso input energetico capaci di convertire in sostanze ad alto valore aggiunto non più i prodotti agricoli come l’amido, gli oli di semi e la canna da zucchero: ma la cellulosa e la lignina degli scarti forestali o della paglia, gli scarti della coltivazione del riso, quelli delle uve e ancora quelli delle arance o del caffè; ovvero di prodotti agricoli ottenuti in quantità misurate annualmente nel mondo in milioni di tonnellate.
Una via italiana alla bioeconomia
Ma mentre questo nel passato avveniva a costi più elevati delle concorrenti produzioni petrolchimiche, oggi le bioraffinerie producono molti dei loro bioprodotti ad un costo inferiore rispetto agli omologhi prodotti ottenuti dal petrolio.
Questo sta determinando un boom globale delle bioproduzioni, nonostante il prezzo del petrolio si mantenga a livelli bassi da oltre tre anni. Come avviene per l’energia prodotta dalle fonti rinnovabili, la produzione dei beni a partire dalle risorse biologiche chiude il ciclo produttivo. Una volta avviati al riciclo, infatti, i bioprodotti diventano materia prima per altri prodotti o i loro componenti rientrano nei rispettivi cicli naturali.
Esiste una vita italiana alla bioeconomia? A nostro avviso, sì. Ed è oggetto del nostro prossimo studio, a breve online: “A Made in Italy Bioeconomy?”.