L’autore di Rape Day, il videogioco che permetteva di uccidere e stuprare le donne, ha esagerato a tal punto che ben venga che il prodotto sia stato ritirato, perché il livello di accettabilità era stato ampiamente superato, tanto più in un momento in cui si sta prepotentemente riaffermando una cultura patriarcale e maschilista che continua a mietere vittime. Ma attenzione a non lavarsi la coscienza scaricando sulla Rete tutti i mali del nostro tempo.
Dovremmo interrogarci su tutta la violenza che abita la nostra vita, caratterizzata da un esasperato individualismo, da una totale mancanza di empatia e da una competizione sfrenata, sui modelli di relazione che proponiamo quotidianamente ai nostri figli e che vanno per la maggiore anche sugli altri media e chiederci dove oggi è consentito ai ragazzi di virtualizzare una fisicità che non ha altri spazi per esprimersi, essendo venuti meno i cortili e le piazze.
Ora che è di fatto vietato giocare a palla avvelenata o tirare con la fionda, pena la chiamata della Polizia Locale o una denuncia da parte del genitore del coetaneo che ha ricevuto la pallonata, dove è possibile, specialmente per l’universo maschile, fare esperienze di sperimentazione di sé che una volta avvenivano nelle piazze?
E ancora: siamo sicuri che far vedere morti reali o persone sgozzate nei telegiornali abbia conseguenze meno pericolose dei morti virtuali? Il rischio di assuefazione (cioè se la proiezione di fantasie cruente in un videogioco può produrre un’abitudine a violenza e abuso) è un tema allo studio, su cui non abbiamo ancora dati sufficienti: è una questione che si era posta anche per la televisione e rispetto alla quale si era giunti alla conclusione che una visione accompagnata e stimolante era cosa ben diversa da un parcheggio in solitudine.
Positivo in ogni caso che se ne parli, che si apra un dibattito su questi temi, che ci si responsabilizzi rispetto alla necessità di promuovere un progetto educativo empatico, non dimenticando che stiamo parlando di un gioco e che giocare è un’area in cui tu metti in gioco delle parti non reali: pensiamo ad esempio allo scalpo, tipica attività scout, e a quello che simboleggia.
A parlare è Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano e dell’AGIPPsA (Associazione Gruppi Italiani di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Adolescenza) e docente presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca e presso la Scuola di formazione in Psicoterapia dell’adolescente e del giovane adulto Arpad-Minotauro.
Da tempo lui e la fondazione che presiede si occupano dell’impatto che le nuove tecnologie hanno sulla crescita degli adolescenti, promuovendo tra l’altro un master in Psicologia dei nuovi media in collaborazione col Policlinico Gemelli di Roma; in questi giorni è in uscita il suo ultimo libro “Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa” (Raffaello Cortina editore). Un titolo che richiama la responsabilità degli adulti nel promuovere una società ipercompetitiva, basata sul successo personale e sull’immagine, da cui poi i ragazzi decidono di autoescludersi per rifugiarsi in una realtà 4.0.
Non condanna lo strumento — un medium potentissimo che fattura tra gli 80 e i 100 miliardi di dollari, tanto quanto fatturano insieme cinema e musica — neanche Flavia Marzano, esperta di digitale e innovazione, attivista sul fronte dei diritti delle donne e assessora comunale a Roma: «È come un coltello, che può tagliare una mela o ammazzare una persona; non va demonizzato. Bisogna lavorare sulla conoscenza e la consapevolezza sia con i bambini sia con i genitori.»
E sulla consapevolezza punta anche Oriana Cok, imprenditrice nel campo digitale, attivista CodeDojo, esperta di digital learning e mamma di una bambina di dieci anni, che se da una parte ribadisce le potenzialità del gioco, che «ci serve per imparare il linguaggio, la relazione e anche per scoprire il mondo interiore», potenzialità educative che nei videogiochi sono accresciute «dalla ripetitività, dalla facilità d’accesso e dal sembrare “così veri”», dall’altra sottolinea che «chi progetta e realizza videogiochi ha la stessa responsabilità di chi insegna, di chi scrive, di chi suona, di tutti coloro che attraverso l’espressione creativa e artistica creano cultura.»
E qui torniamo alle domande fondamentali poste da Lancini: quali modelli culturali stiamo proponendo ai nostri figli e stiamo veicolando attraverso i media? Modelli d’incontro e di coesione sociale o di esclusione e sopraffazione reciproca? È una risposta che ciascuno e ciascuna di noi deve elaborare, senza dare la colpa ai videogiochi.